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La responsabilità civile dei magistrati

Segnali e fumo

Bisogna separare le carriere di giudici e accusatori

di Davide Giacalone - 04 febbraio 2012

Mi piacerebbe festeggiare l’avvento di una vera responsabilità civile, in capo ai magistrati, ma non è così. Non ci si lasci ingannare dalla reazione isterica, e sostanzialmente insurrezionale, dell’Associazione Nazionale Magistrati, che si rivolge al Parlamento come fosse una cosca criminale dedita alle intimidazioni. Il corporativismo acceca, ma non è un buon motivo per lasciarsi accecare. La storia di questo istituto, il modo in cui è stato tradito il referendum del 1987, è già stata fatta, egregiamente, da Filippo Facci. Valga quella. Il fatto è che già oggi il magistrato è perseguibile in caso di dolo o colpa grave, salvo il fatto che i suoi colleghi non lo fanno mai (4 casi su 400!!). Già oggi potrebbe essere chiamato a rispondere del danno erariale arrecato, salvo il fatto che la Corte dei conti se ne guarda bene. L’emendamento votato dalla Camera dei Deputati, avversato dal governo (sbagliando), contiene una sola novità: oltre al dolo e alla colpa grave è prevista responsabilità in caso di “violazione manifesta del diritto”.

Che vuol dire? Tutto e niente. Siccome sarà l’oste a giudicare del vino, immaginate il risultato. Il ministro Severino ha ragione nel dire che non si possono fare riforme a spizzichi e bocconi. Solo che, in questo modo, si dà torto per i fatti propri: ogni riforma che punti ad affermare il diritto resterà lettera morta se non si adegua il sistema giudiziario italiano allo standard minimo della civiltà, quindi separando le carriere di giudici e accusatori. C’è uno spread della giustizia che ci trasciniamo dietro da decenni, che solo noi denunciamo e che ci declassa tutti. Non se ne esce: o il modello francese, con il Csm, ma con i pm che dipendono dal governo, o il modello anglosassone, ove la colleganza è considerata (giustamente) una bestemmia. Proprio seguendo il ragionamento della Severino si finisce con il considerare mera cosmesi ogni altra cosa. Purtroppo, sia chi festeggia che chi minaccia lo sciopero (spero il governo voglia considerare i magistrati almeno al pari dei camionisti) guarda più che alla sostanza al “segnale”. Alla suggestione: gli uni pensando d’avere espugnato la più rigida, autoreferenziale e privilegiata delle corporazioni, gli altri supponendo che si possa far la guerra all’evidenza, pur di mantenere un potere che ha corrotto il diritto e la Costituzione. Brutta roba.

Così come il modo in cui, sempre in tema di giustizia, vengono trattati altri “segnali”: la cassazione stabilisce che gli indagati per violenza carnale di gruppo non devono andare obbligatoriamente in carcere e tutti a berciare sul danno alle donne e sul favore ai pervertiti. Non ha senso. I violentatori, una volta condannati, vanno in carcere. Ci mancherebbe. Ma non è giusto che debba per forza (ripeto “per forza”) andarci chi è accusato. Noi lo scrivemmo quando quella legge stupida fu approvata, poi la Corte costituzionale la corresse, eliminando l’obbligatorietà, e ora la cassazione interviene su un caso specifico. Siamo nel campo dell’ovvio. Ma non basta per fermare le urla, giacché quel che conta è il “segnale”. Peccato che in questo modo procedendo il nostro diritto ha preso a parlare come gli indiani dei western razzisti: io credere che tu non dovere fare perché grande orso non volere. Anziché ragionare di diritto si va avanti a segnali di fumo, che è anche l’unica cosa che rimane.

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