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Gli <i>errori </i>di Confindustria

Se io fossi Emma Marcegaglia

Tre buoni motivi per dire: “cari colleghi imprenditori, abbiamo sbagliato"

di Enrico Cisnetto - 06 maggio 2011

Se io fossi Emma Marcegaglia, domani all’assise confindustriale di Bergamo, comincerei il mio intervento dicendo: “cari colleghi imprenditori, abbiamo sbagliato. Sì, abbiamo commesso ben tre errori fondamentali: uno di presunzione; uno di metodo, direi quasi culturale; e uno di merito, nell’attuale contingenza politica.

L’ultimo è quello che si vede di più, e che molti di voi, magari per ragioni opposte, mi rimproverano. Ma non è il più importante, trattasi di peccato veniale. Sono gli altri due, invece, ad essere stati mortali”. E qui proseguirei spiegando in dettaglio l’autocritica. Partendo dalla presunzione, che è quella di aver voluto dipingere le aziende come l’unica parte sana del Paese, esposta non anche a propri vizi ma soltanto alle ricadute negative delle decisioni sbagliate e delle decisioni mancate dei terzi, dalla politica ai sindacati.

“Invece”, direi, “la verità è che abbiamo sottovalutato i nostri ritardi nel capire le trasformazioni che la globalizzazione dei mercati e dei business imponevano, abbiamo taciuto le nostre furbizie, negato la scarsa voglia di rischiare che molti di noi hanno invece mostrato, preferendo l’operazione finanziaria o immobiliare all’investimento nell’azienda. E Confindustria ha commesso l’errore di voler rappresentare tutti, quelli che avevano i numeri per uscire vivi dalla recessione e magari sfruttare la crisi per conquistare quote e spazi di mercato, e quelli che invece non ce la potevano fare. Senza capire che così facendo rischiava, come almeno in parte è effettivamente accaduto, di non rappresentare nessuno.

Insomma, nella crisi ci siamo finiti tutti per colpa di tutti, e non ne usciremo continuando a dare la colpa solo agli altri senza assumerci le nostre responsabilità”.

In particolare, bisogna che gli imprenditori facciano i conti con la politica. Perché Confindustria a Bergamo non può presentare un’indagine su un campione di piccole e medie imprese associate in cui si dice che esse sono pronte ad affrontare le sfide dell’innovazione e dei nuovi mercati solo se avranno il “cruciale supporto del sistema Paese”, dopo che per anni ha emesso sentenze sull’inutilità della politica e sulla necessità dello “Stato minimo”.

La contraddizione è talmente evidente che persino il più impolitico (per dna e per convenienza) dei politici italiano, Silvio Berlusconi, ieri ha smesso i panni del “collega imprenditore” che al cospetto di Confindustria ha sempre vestito, per sbottare con un “sarebbe ora che Confindustria capisse di fare qualcosa per noi e che non sia solo il governo a dover fare qualcosa per loro”.

Certo, in quel “loro” c’è tutto il distacco del premier da chi ritiene ormai apertamente degli “ingrati” perché si sono permessi di criticarlo, ma c’è anche della verità, se si mettono assieme la mancata autocritica confindustriale con la cultura di fondo – cui lo stesso Cavaliere s’è sempre abbeverato – sull’inutilità della politica rispetto alla logica del fare. E qui siamo al secondo degli errori epocali commessi da Confindustria: il non aver posto, asserendo non fosse affar suo, la questione del “sistema politico” e più in generale delle regole costituzionali.

“Io, ma neppure i miei predecessori”, direi se fossi Marcegaglia, “abbiamo mai capito come la linea della nostra confederazione non potesse ridursi, come invece è stato, solo al giudizio su questo o quel provvedimento, su questo o quel ministro, o al più su questo o quel governo. No, noi avremmo dovuto domandarci perché è fallito il sistema politico chiamato Seconda Repubblica, e che abbiamo contribuito più di altri a determinare nella stagione di Tangentopoli invocando il maggioritario e il bipolarismo (quando non il bipartitismo) e aiutando in modo decisivo il referendum Segni.

E siccome non è mai troppo tardi, oggi siamo qui per emendare questo errore e indicare al Paese la via d’uscita. Che, per come si è deteriorata la situazione, non può che passare attraverso un passaggio rifondativo della Repubblica come un’Assemblea Costituente. Che proponiamo formalmente, e su cui intendiamo contribuire a edificare la ormai indifferibile Terza Repubblica”. Si dirà, ma perché mai un presidente quasi uscente (già sono iniziate le grandi manovre per la successione) dovrebbe impegnarsi in un discorso così difficile? Per almeno tre buoni motivi. Uno perché dopo aver affermato, come fa il documento base dell’assise di domani, che l’economia italiana ha subito “danni permanenti che non recupererà”, c’è il dovere di suggerire a propri associati una via d’uscita.

Due, perché avendo una parte non piccola di responsabilità nell’edificazione della Seconda Repubblica, ora bisogna dare al Paese una chance di riscatto. E terzo, più egoisticamente, perché se i due terzi dei propri iscritti auspicano “un governo capace di potenziare e dare prestigio all’Italia nel mondo”, con ciò dando per scontato che quello esistente non adempie a questo compito, per un’organizzazione che ama definirsi “governativa per definizione”, meglio essere all’opposizione del sistema che di un singolo esecutivo, quale che esso sia. Ma lo dirà, Emma?

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.