L’Italia fra macro-declino alla micro-crescita
Se il capitalismo è d‘elite
Le imprese che investono sono sempre minoranza. E non cambiano specializzazionedi Enrico Cisnetto - 30 marzo 2007
Può un capitalismo fatto di 4,5 milioni di imprese, basarsi solo su alcune centinaia di migliaia? Può essere solo di elite e non di popolo, secondo la preoccupata definizione di De Rita? Pur con molto ritardo, è in atto una trasformazione del nostro apparato produttivo, che è alla base del ritorno alla crescita del pil, ma essa riguarda un numero ristretto di imprese. “Minoranza trainante”, la definisce il Censis, che di recente ha indagato il mondo agricolo per conto di Confagricoltura, scoprendo che su oltre 1,8 milioni di soggetti censiti dall’Istat soltanto il 27% – pari a 490mila unità – ha un giro d’affari annuo superiore ai 10mila euro, ma realizza il 90% del fatturato complessivo. Di queste, però, meno della metà – 220 mila imprese, il 12% del totale – appartengono all’agricoltura di mercato, il resto è produzione marginale e assistita. A ben pensarci, il fatto che ci siano imprese agricole in grado di innovare, di costruire filiere (integrando produzione, trasformazione e commercializzazione) di investire sulla qualità e di internazionalizzarsi, significa che l’agricoltura sta cambiando faccia. Ma significa anche che ci sono 1,6 milioni di operatori agricoli – quella che potremmo chiamare la “maggioranza frenante” – destinati in buona misura a soccombere. Con costi economici e sociali di non poco conto.
Lo stesso discorso vale, grosso modo, per l’industria e per il terziario. Una ricerca della Fondazione Rodolfo DeBenedetti ci dice che i grandi processi di ristrutturazione intrapresi dalla nostra economia sono soprattutto visibili a livello di impresa, piuttosto che in termini di modifica della specializzazione settoriale verso attività ad alto valore aggiunto. Questo significa che il sistema produttivo italiano non è affatto cambiato, ma semplicemente che c’è una minoranza – prevalentemente formata da imprese medio-grandi – che sta innovando e una maggioranza che non l’ha fatto e che, a questo punto, difficilmente avrà la forza e il tempo di farlo. Il settore delle macchine per la lavorazione conciaria – dove le cinque maggiori imprese fa oltre l’80% del fatturato e degli utili delle 220 aziende da cui è composto – è un esempio perfetto. E che non sia in atto alcuna ristrutturazione profonda lo dimostrano le conclusioni cui arriva la Fondazione DeBenedetti, perfettamente combacianti con gli ultimi dati dell’Isae.
Primo: le esportazioni italiane rimangono fortemente concentrate nei comparti più tradizionali, e quelli che stanno tirando l’export – peraltro in termini di valore ma non di volumi – sono tutti molto più labour che non hi-tech intensive (gomma, materie plastiche, metallo, prodotti chimici, fibre sintetiche, tessile-abbigliamento, macchine e apparecchi meccanici). Secondo: l’internazionalizzazione rimane ad appannaggio dei “grandi esportatori”, e chi fa più del 40% del giro d’affari all’estero ha, di solito, oltre 250 dipendenti, e questo restringe drammaticamente il numero di imprese coinvolte. Terzo: il modello di specializzazione dell’industria italiana non cambia, visto che sono sempre le quattro A del made in italy (arredamento, alimentari, abbigliamento, automazione), il cuoio e i mobili, a fare quasi la metà della nostra produzione manifatturiera. Dunque, chi migliora lo fa nel suo settore, e non c’è traccia di riallocazione di risorse verso settori tecnologicamente più avanzati.
Da tutto questo se ne deduce che il problema della nostra competitività nell’economia globale – che negli ultimi tre lustri è calata mediamente di un punto all’anno – dipende da due grandi questioni. La prima riguarda i processi in atto nelle imprese, ed è data dalla velocità sia con cui le imprese che fanno parte delle “minoranze trainanti” riescono a crescere – per linee interne, ma soprattutto allargando il perimetro – sia da quella con cui le maggioranze frenanti espellono dal mercato milioni (dico milioni) di operatori. La seconda è relativa alla dialisi, finora di là da venire, da una specializzazione “analogica” ad una “digitale” dei settori produttivi. Cosa, questa, che investe la politica prima che le imprese, perchè richiede una strategia di sistema-paese finora inespressa. Il tema vero, dunque, è quello di come evitare di passare dal macro-declino alla micro-crescita. Il resto, a cominciare dalla boutade del ministro Padoa-Schioppa sul 3% di pil in più, sono solo chiacchiere.
Pubblicato su Il Foglio del 30 marzo 2006
Lo stesso discorso vale, grosso modo, per l’industria e per il terziario. Una ricerca della Fondazione Rodolfo DeBenedetti ci dice che i grandi processi di ristrutturazione intrapresi dalla nostra economia sono soprattutto visibili a livello di impresa, piuttosto che in termini di modifica della specializzazione settoriale verso attività ad alto valore aggiunto. Questo significa che il sistema produttivo italiano non è affatto cambiato, ma semplicemente che c’è una minoranza – prevalentemente formata da imprese medio-grandi – che sta innovando e una maggioranza che non l’ha fatto e che, a questo punto, difficilmente avrà la forza e il tempo di farlo. Il settore delle macchine per la lavorazione conciaria – dove le cinque maggiori imprese fa oltre l’80% del fatturato e degli utili delle 220 aziende da cui è composto – è un esempio perfetto. E che non sia in atto alcuna ristrutturazione profonda lo dimostrano le conclusioni cui arriva la Fondazione DeBenedetti, perfettamente combacianti con gli ultimi dati dell’Isae.
Primo: le esportazioni italiane rimangono fortemente concentrate nei comparti più tradizionali, e quelli che stanno tirando l’export – peraltro in termini di valore ma non di volumi – sono tutti molto più labour che non hi-tech intensive (gomma, materie plastiche, metallo, prodotti chimici, fibre sintetiche, tessile-abbigliamento, macchine e apparecchi meccanici). Secondo: l’internazionalizzazione rimane ad appannaggio dei “grandi esportatori”, e chi fa più del 40% del giro d’affari all’estero ha, di solito, oltre 250 dipendenti, e questo restringe drammaticamente il numero di imprese coinvolte. Terzo: il modello di specializzazione dell’industria italiana non cambia, visto che sono sempre le quattro A del made in italy (arredamento, alimentari, abbigliamento, automazione), il cuoio e i mobili, a fare quasi la metà della nostra produzione manifatturiera. Dunque, chi migliora lo fa nel suo settore, e non c’è traccia di riallocazione di risorse verso settori tecnologicamente più avanzati.
Da tutto questo se ne deduce che il problema della nostra competitività nell’economia globale – che negli ultimi tre lustri è calata mediamente di un punto all’anno – dipende da due grandi questioni. La prima riguarda i processi in atto nelle imprese, ed è data dalla velocità sia con cui le imprese che fanno parte delle “minoranze trainanti” riescono a crescere – per linee interne, ma soprattutto allargando il perimetro – sia da quella con cui le maggioranze frenanti espellono dal mercato milioni (dico milioni) di operatori. La seconda è relativa alla dialisi, finora di là da venire, da una specializzazione “analogica” ad una “digitale” dei settori produttivi. Cosa, questa, che investe la politica prima che le imprese, perchè richiede una strategia di sistema-paese finora inespressa. Il tema vero, dunque, è quello di come evitare di passare dal macro-declino alla micro-crescita. Il resto, a cominciare dalla boutade del ministro Padoa-Schioppa sul 3% di pil in più, sono solo chiacchiere.
Pubblicato su Il Foglio del 30 marzo 2006
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.