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Per quelli che dicono sì e no al referendum

Se andare avanti significa scivolare

Si avvicina l’appuntamento del 25 giugno. La costosa strada federalista unica soluzione?

di Enrico Cisnetto - 19 giugno 2006

Non è detto che una retromarcia sia una ritirata. Sul federalismo vi è unanimità bipartisan nell’ammettere che ci troviamo a metà del guado, e che – vada come vada il referendum di domenica prossima – è necessario sedersi tutti intorno a un tavolo per riscrivere le regole comuni. Finora, infatti, il Paese è andato avanti con un meccanismo contrappositivo, innescato dal centro-sinistra con la riforma del Titolo V della Costituzione e proseguito dal governo Berlusconi con la devolution. Si sono definiti i meccanismi di spesa – deregulation e trasferimenti alle Regioni – monchi però della copertura finanziaria. Manca il famoso federalismo fiscale, insomma, e così s’invoca piena capacità impositiva agli enti locali. Errore: per affrontare il declino del Paese, è necessario fare esattamente il contrario.
Sul totale della spesa pubblica, oggi quella decentrata rappresenta il 55% – pari a ben il 15% del pil – contro il 45% delle amministrazioni centrali. Inoltre, l"80% della spesa pubblica in conto capitale è erogato a livello locale. E si è visto quali sono stati gli effetti del federalismo praticato fin qui: lo sforamento dei tetti della sanità in Liguria, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania e Sicilia. Più altri debiti sanitari sommersi – i ritardi nei pagamenti ai fornitori delle Asl – il cui totale si aggira intorno ai 17 miliardi. Secondo uno studio di Banca Intesa, con la devolution, la spesa delle amministrazioni locali salirà da 207 a 277 miliardi di euro (+33%): diventerebbe di competenza regionale il 37% della spesa della PA, che arriverebbe al 21% del pil. La scuola da sola se ne porterà via 66,3, mentre il personale costerà 1,4 miliardi in più. Come recuperare questi soldi? A colpi di tasse, gabelle e ticket. E la crescita dal 6,7% al 18,2% del pil delle imposte dirette e indirette locali – l’unico modo per far tornare i conti – significherebbe una pressione fiscale locale moltiplicata per tre. Ma l’effetto più deleterio si avrebbe per la politica industriale: entrate su base regionale vorrà dire investimenti – per quel poco che sarà possibile – usati in ottica localistica, l’esatto contrario di quanto ci vuole. Perché gli amministratori locali saranno inevitabilmente portati a sostenere le imprese in difficoltà, specie quelle a più alta occupazione, rendendo impossibile concentrare le risorse sui “poli d’eccellenza” (come hanno fatto i francesi) per competere nel mercato globale. La riconversione dell’apparato industriale verso la modernità non c’entra nulla con il territorio, visto che il problema una volta tanto mette Nord e Sud sullo stesso piano (inclinato). C’entra invece – e tanto – con le imprese italiane che sono fuori mercato per dimensione, tipologia, capacità di vincere la concorrenza. E che hanno bisogno di una politica forte, che sia in grado di mostrare la via e non indulga in elemosine di Stato (o di Regione). In quest’ottica, più che aumentarli, bisognerebbe ridurre i livelli istituzionali – e quindi decisionali – già fin troppo complessi. Ecco perché se, come sperabile, dopo il referendum si formerà una volontà comune di (ri)scrivere regole che aiutino il Paese a modernizzarsi – e l’Assemblea Costituente appare il mezzo più idoneo – l’obiettivo non dovrà essere attraversare la metà del guado mancante, ma tornare indietro. Pena scivolare e affogare.

Pubblicato sul Messaggero del 18 giugno 2006

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