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La produttività nazionale ai minimi storici

Scarsa sopravvivenza industriale

Imprese: tante se ne aprono, ma quante sopravvivono? Solo la metà resiste

di Antonio Gesualdi - 07 novembre 2006

Nel 2003 (ultimo dato aggiornato) in Italia sono nate 300 mila imprese. Si tratta del numero più elevato dal 1999. Un tasso di natalità altissimo, ma differenziato: nell"industria e nel commercio il tasso è stabile, cresce nelle costruzioni e nei servizi. La mortalità va più o meno di pari passo. Nell"industria siamo sempre ad un trend negativo - più morte che vive, insomma - una qualche tenuta nelle costruzioni e nei servizi, segno negativo nel commercio. Impennata di nuove imprese nel settore delle telecomunicazioni (+29,4%) e nel noleggio, informatica, ricerca e attività professionali. In agonia continua l"industria tessile-abbigliamento, quella conciaria, prodotti in cuoio, pelli e simili. Lazio e Campania restano le regioni a più alto fermento. In questo apri-e-chiudi sono stati coinvolti, in un solo anno, circa 840 mila posti di lavoro; più o meno il 5,5% del totale dell"occupazione. Gli italiani più movimentati sono quelli dei settori del noleggio, intermediazione finanziaria, immobiliare, ricerca e attività imprenditoriali varie. Il settore telecomunicazioni, invece, pur avendo un turbinio continuo di apri-e-chiudi coinvolge (purtroppo) pochissimi addetti. Una spia di una qualche situazione "difficile" di quel mondo del lavoro più moderno di altri.
Adesso viene il bello: di tutte queste imprese nuove solo la metà sopravvive dopo 5 anni e prevalentemente (fortunatamente) quelle del settore industriale.
Registriamo la nascita di una miriade di piccole imprese che durano poco in settori che non producono occupazione qualificata. E ci trasciniamo anche il problema della produttività e profittività. Dal 1999 al 2003 l"Italia fa registrare un rapporto tra pensionati e popolazione residente stabile e intorno al 27%. Mentre il rapporto tra pensionati e occupati, nello stesso periodo, diminuisce sistematicamente passando dal 69,5% al 65,5%. Il sistema produttivo è in stallo e né il mercato, nè lo Stato riescono più a redistribuire risorse. Anche perché si produce sempre meno.
Ora se è vero che anche i settori a basso saggio di produttività contribuiscono al progresso e alla crescita generale resta pur vero che chi non produce poco o niente può distribuire. Questo in teoria. In pratica vediamo che quanto più aumenta la produttività e il fermento dei settori produttivistici tanto più aumenta il peso dei settori non-produttivistici. Per capirci: per aprire un"impresa serve pur sempre anche un solo burocrate che metta un timbro e un bollo su una carta. Tanto più è necessario trasferire reddito dall"uno all"altro. Il cane che si morde la coda. Ciò significa che è "la proporzione del trasferimento" che caratterizza una società moderna e post-industriale e non il trasferimento in sé. I classici credono ancora che sia il mercato a distribuire la produttività migliorata attraverso la regolazione dei prezzi. I democratici credono ancora che questo lo debba fare lo Stato con il prelievo fiscale. Nella realtà quando questi due regolatori non reggono più - a certe condizioni di prezzi e redditi - interviene l"inflazione.
Questo ruolo, genericamente positivo, dell"inflazione ha però un senso solo se vi sono e si realizzano aspettative positive di aumento della produttività. Diciamo che nel mondo industrializzato ci deve essere un certo fermento scientifico e tecnologico e anche una voglia di cose nuove, beni da consumare, esigenze più varie per avere progresso. Serve anche una popolazione giovane e attiva sessualmente che non solo produca di più, ma anche si ri-produca di più. La produttività, quindi, è il risultato dello stato psico-fisico di una popolazione, non il contrario.
Le nuove imprese italiane, invece, ci dicono che siamo in un altro mondo: noleggio (di che?), movimentazione di denaro (probabilmente quello delle rendite e delle eredità), settore immobiliare (vedi voce precedente) e, infine, ricerca e attività imprenditoriali. Ben poco per sostenere un discorso classico di crescita e sviluppo. In realtà abbiamo una popolazione vecchia, una produttività bassa, un"inflazione bassa, un debito enorme eccetera, eccetera perché siamo in forte ritardo culturale. Il mercato è fatto da imprenditori che non hanno costruito le proprie aziende, ma le hanno ereditate e da lavoratori sempre più svincolati dal destino dell"impresa nella quale lavorano. Lo Stato è gestito da personale - funzionari e politici - che deve garantire, contemporaneamente, la propria sopravvivenza e quella del Paese. Ma i due obiettivi sono in contraddizione perché il Paese è in deficit strutturale. I profitti sono in calo, tanto quanto i redditi, perché in questa nuova economia ciò che ha valore è la capacità umana, del singolo non il capitale e la massa di lavoro. Valgono le prestazioni personali più che i processi e i prodotti. La qualità del lavoro (che, ad esempio, deve esserci nel settore delle tele-comunicazioni) vale tanto quanto, se non di più, il capitale o la rendita.
La contro-rivoluzione industriale, necessariamente, produce un"imprenditoria senza prospettive di profitto che riduce la produttività e quindi il lavoro di massa. Nelle economie più avanzate (anche in alcune aree nazionali) abbiamo casi evidenti di questo processo: medie imprese ad alta produttività e innovazione e professionisti motivati dall"interesse professionale, appunto, prima che da quello della profittività. Questo è il motivo per il quale il nostro Paese è in ritardo: lo Stato, ma anche il mercato si muovono ancora con i paradigmi ottocenteschi, mentre la parte più avanzata e produttiva chiede non interventi diretti, ma sistemi non-produttivi più efficienti (esempio: infrastrutture immateriali).
Quanto ai consumi, essi ristagnano perché sono sempre meno "di massa" e sempre più consumi qualificati. Se è così dobbiamo accettare lo sterminio di ancora molte inutili imprese, favorire l"accorpamento e la crescita di quelle più produttive in settori più qualificati, imparare a valorizzare i talenti personali e soprattutto - se si arriverà ad avere intense produttività in settori concentrati - sarà sempre più necessaria una capacità re-distributiva strategica ed efficiente. Oggi è il sistema non-produttivistico italiano (settore pubblico, servizi dequalificati e precari, istruzione, commercio) quello che, più del sistema produttivistico, è in crisi. In un"economia di servizi e avanzata ciò significa che è tutto il sistema-Paese in stallo: serve non una "mano invisibile" per rimetterlo in sesto, ma una vera e propria "mano decisa." Il dilemma è grave perché bisogna rispondere alla domanda: chi può riorganizzare il sistema della pubblica amministrazione senza temere di non essere rieletto?

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