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Alcoa e Carbosulcis

Sardegna-Roma solo andata

Un viaggio della speranza, che potrebbe essere dell'illusione. I lavoratori sardi hanno marciato su Roma, incerti quale sarà il futuro al loro ritorno. Ecco i nodi, forse irrisolvibili.

di Giulia Lo Giudice - 31 agosto 2012

Non smettevano di battere ritmicamente sull’asfalto gli elmetti di protezione i circa 50 lavoratori dell’Alcoa riuniti in presidio questa mattina assieme ai sindaci dei comuni della provincia di Carbonia-Iglesias sotto al Ministero dello Sviluppo Economico a Roma.

Dopo essere giunti a Civitavecchia ieri con un traghetto messo a disposizione da Tirrenia si sono diretti, attraverso una lunga marcia di 15 km a piedi, simbolo della proverbiale resistenza dei sardi, a Roma, dove oggi si è svolto un incontro decisivo per il futuro dell’ impianto di lavorazione dell’alluminio primario di Portovesme e per l’intero territorio del Sulcis, una delle province più povere d’Italia con un tasso di disoccupazione che si aggira intorno al 30% (e per i giovani al 60%).

Sono circa 500 i lavoratori direttamente dipendenti dalla multinazionale statunitense che rischiano il posto di lavoro se non verrà scongiurata l’imminente chiusura dell’impianto con il progressivo spegnimento delle celle a partire dal 3 settembre. A questi vanno aggiunti altrettanti lavoratori dell’indotto: si tratta quindi di un territorio che sostanzialmente vive grazie alla presenza dell’Alcoa, presente da circa quarant’anni.

Da gennaio scorso Alcoa ha annunciato la volontà di chiudere l’impianto di Portovesme, nell’ambito di un piano di ristrutturazione aziendale globale (che vede coinvolti anche i siti spagnoli de La Coruna e Aviles), a causa della scarsa competitività e produttività del sito. Secondo l’azienda questi risultati negativi sono stati generati sia da condizioni locali sfavorevoli all’industria, come le carenze infrastrutturali e gli alti costi delle materie prime e soprattutto dell’energia, ma anche da fattori di portata globale come il crollo dei prezzi dell’alluminio e la tendenza alla delocalizzazione produttiva, laddove i costi del lavoro sono maggiormente comprimibili. Alcoa ha sempre lamentato di essere in perdita in Italia per i costi di produzione più alti che altrove e già nel 2010, sotto il governo Berlusconi, ha beneficiato di un accordo “salva industria” per ottenere tariffe Enel agevolate, che non è servito a molto, se non a rimediare una multa dell’Unione Europea in base al divieto generale di aiuti di Stato alle industrie.

Dall’incontro di oggi i lavoratori di Alcoa si aspettano che venga formalizzato, attraverso una lettera di intenti, l’impegno del Governo e della Regione a facilitare il processo di acquisto del sito da parte della multinazionale svizzera Glencore, che si è rivelata essere l’unico acquirente credibile: chiedono la salvaguardia dell’industria e del lavoro, che si raggiunga un nuovo accordo sulle forniture di energia (il Governo dovrebbe cioè intervenire in quanto detentore di una quota dell’Enel per trovare un compromesso tra il fornitore energetico e il nuovo gruppo industriale) e che si creino condizioni infrastrutturali vantaggiose per l’industria, in particolare che il porto industriale e commerciale di Portovesme sia ingrandito e dotato dei servizi necessari ad un incremento dei traffici. Per il momento, però, l’unica rassicurazione che si è ottenuta è che gli ammortizzatori sociali, cassa integrazione, mobilità e formazione e assistenza per la ricollocazione, vengano estesi da domani anche ai lavoratori dell’indotto.

I lavoratori inoltre denunciano la “trattativa farlocca” condotta da Alcoa nella ricerca di un compratore: secondo loro, la multinazionale americana non vorrebbe affatto vendere, rischiando così di crearsi un concorrente, ma solo ed unicamente chiudere i battenti per trasferirsi altrove. Non a caso infatti, denunciano gli operai, prima del solido colosso industriale Glencore, si è trattato con un fondo finanziario denominato Aurelius che molti accusano di essere un prestanome di Alcoa stessa e che, in ogni caso, si è sfaldato quasi subito rivelandosi inconsistente.

Momenti di tensione si sono avuti quando uno sparuto gruppetto di operai si è arrampicato sull’inferriata del portone del Ministero a circa tre metri di altezza e uno di loro, complice il caldo e la stanchezza, ha accusato un malore ed è svenuto, riuscendo a non cadere giù solo grazie ai compagni che, nonostante la fatica, lo hanno sorretto fino all’arrivo dei vigili del fuoco che con l’aiuto di una scala sono riusciti a far scendere tutti sani e salvi.

Oltre al caso dell’Alcoa, nel vertice di oggi tra Presidente della Regione, Presidente della Provincia, Sottosegretario al Ministero dello Sviluppo Economico e rappresentanti della Glencore, si è discusso anche dell’altra situazione di emergenza che affligge il comparto industriale minerario del Sulcis, e cioè la miniera di carbone Carbosulcis, anch’essa in procinto di chiudere. Per la Carbosulcis la Regione, proprietaria su licenza dell’impianto, ha proposto un piano di riconversione industriale e di sviluppo locale articolato in sette punti su cui però il Governo si è espresso negativamente a causa degli alti costi che avrebbe per le tasche degli italiani. Per garantire la salvaguardia dei posti di lavoro la Regione ha proposto il potenziamento del polo industriale, la realizzazione di una centrale Carbon Capture and Storage (si tratta di una centrale termoelettrica alimentata con il carbone del Sulcis con un sistema ecocompatibile di cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica nel sottosuolo), il rilancio delle opere di metanizzazione e costruzione del gasdotto Galsi, la bonifica delle miniere dismesse, la costruzione di infrastrutture più efficienti, il rilancio del turismo e la valorizzazione di attività legate all’ambiente. Sul secondo punto, e cioè la costruzione della CCS, si è consumato lo scontro con il governo che ha bollato questo progetto come non sostenibile economicamente: il sottosegretario De Vincenti, infatti, ha dichiarato che non ci sono finanziamenti aggiuntivi a disposizione, oltre a quelli europei previsti dal fondo PAR FAS 2007-2013 e dal PO- FESR per le aree di crisi pari a circa 350 mln di euro, e ha auspicato l’intervento di investitori privati.

E’ evidente che al centro di questa spinosa situazione, che vede contrapposti gli interessi dei lavoratori e quelli dell’industria, si pone l’annoso dilemma se sia giusto o no finanziare e agevolare un’impresa in perdita per salvaguardare dei posti di lavoro, o, per dirla a là Keynes, se è giusto, che lo Stato intervenga per regolare i fallimenti del mercato. Bisogna riconoscere che in questo braccio di ferro spesso a pagare i costi sociali e occupazionali più elevati e odiosi sono i lavoratori e le loro famiglie, e questo è sicuramente ingiusto. Del resto però non si può ignorare il fatto che, in un mondo caratterizzato sempre più da una condizione di economia globalizzata transazionale, la portata di tali decisioni, nonché la valutazione degli effetti che hanno, spesso trascende il piano locale per acquisire una dimensione globale di più ampio respiro che vede emergere nuovi competitori e nuovi mercati.

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