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Partite europee, autolesionismo made in Italy

Ritroviamo una politica industriale

Francesi e spagnoli puntano sui campioni nazionali. Noi invece al nanismo localista

di Enrico Cisnetto - 09 settembre 2005

Segnali di autolesionismo made in Italy. Il governo di centro-destra francese ha deciso di mettere dei vincoli alle opa straniere su alcune industrie strategiche transalpine. Il socialista spagnolo Zapatero vuole favorire la crescita dei “campioni nazionali” iberici. Schroeder e la Merkel non si sognano di inserire nella campagna elettorale elementi di conflitto sul principio della difesa dei grandi gruppi tedeschi, sulle cui esportazioni in impetuoso aumento la Germania sta concordemente giocando le sue carte di ripresa economica. Insomma, in tutta Europa si risponde alle sfide imposte dalla globalizzazione investendo sulle grandi imprese in una logica di tutela dei singoli interessi nazionali. Da noi, invece, l’italianità è una bestemmia e “grande è brutto”. Collocati tanto a destra quanto (soprattutto) a sinistra, i nostri “liberali tardivi” ci spiegano che il mercato è intangibile, che la politica industriale è un vecchio arnese della vituperata Prima Repubblica e che la naturale tendenza a rimpicciolire delle norme antitrust deve prevalere sulla necessità di grandi dimensioni che richiede la competizione globale. Il tutto, ovviamente, in nome dei diritti dei consumatori italiani, come se il loro primo interesse – proprio per poter più e meglio consumare – non fosse quello di vivere in un paese che punta con tutti i mezzi allo sviluppo della sua economia.

Prendiamo il caso spagnolo. L’opa ostile della catalana Gas Natural su Endesa darà probabilmente vita al terzo gruppo europeo del settore dell’energia. A un mese dal libro bianco di Zapatero che puntava a rafforzare le utilities nazionali, Gas Natural ha preso la palla al balzo, e per aggirare le ovvie obiezioni antitrust ha anche annunciato che, in caso di successo, cederebbe alcuni asset di Endesa al numero due dell’elettricità spagnola Iberdrola. Dunque, nessuna asta aperta a società straniere – cui, per esempio, avrebbe potuto partecipare la Viesgo, controllata iberica di Enel – ma un vero e proprio passaggio diretto, di fatto gestito dal governo. E in Italia? Il caso del settore energetico è paradigmatico del declino economico in atto.

Duole ammetterlo, ma siamo costretti a prendere esempio anche da quelli che poco tempo fa consideravamo arretrati (gli spagnoli), e che invece ora ci stanno superando di gran carriera. Nel nostro Paese manca una politica industriale attiva. Lo dimostrano le attuali discussioni su come ridimensionare ulteriormente i pochi grandi gruppi dell’energia che abbiamo, i nostri campioni nazionali. Invece di metterli in condizione di irrobustirsi e creare un circolo virtuoso, magari operando acquisizioni sui mercati esteri, si immagina di sottrarre altre centrali e reti di distribuzione all’Enel, a oggi unico tra gli ex monopolisti in Europa che ha perso a favore dei campioni europei (Endesa, Edf, Electrabel, Verbund) centrali per 15mila megawatt (la potenza del Belgio) e milioni di clienti nelle principali città a favore delle ex municipalizzate. Il “liberismo tardivo” ha evidentemente prevalso, tanto che in soli sette anni l’Enel è passata da secondo a quarto gruppo europeo per energia generata, superato dai due giganti tedeschi E.on e RWE. Se non si cambia marcia sarà a breve sorpassato anche dalle aziende spagnole e dalla scandinava Vattenfall, vedendo seriamente pregiudicate le chance per l’Italia di poter dire la sua sul mercato continentale. Davvero un clamoroso autogol. Il sistema politico italiano non ha ancora compreso che la globalizzazione è sinonimo di grandi dimensioni industriali.

Basta guardare appena oltre confine per rendersene conto. In Francia, infatti, il governo ha costruito solide barriere contro le acquisizioni estere, privatizzando solo il 15% di Edf mantenendola così quanto più possibile solida, così come aveva fatto con Gaz de France. Con il piano economico Beffa, inoltre, ha creato 67 “poli di eccellenza” (di cui 15 internazionali), affidati al coordinamento di due agenzie nazionali, una per la ricerca e l’altra per l’innovazione industriale. Ben altro rispetto alle 124 agenzie per la promozione del territorio italiano, figlie e madri del micidiale binomio localismo-nanismo. Il miglior modo per aiutare le numerosissime piccole imprese italiane rimane quello di irrobustire i grandi gruppi e far crescere i medi. Senza autolesionismi, per quanto “politicamente corretti”.

Pubblicato sul Messaggero dell’8 settembre 2005

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