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Debole crescita grazie a pochi innovatori

Ripresina non fa rima con manovrina

Tornare dalla recessione alla stagnazione non è un gran risultato, e non è merito del governo

di Enrico Cisnetto - 17 ottobre 2005

Certo, fa impressione assistere ad una manovra correttiva dei conti pubblici, come quella da 1,9 miliardi decisa venerdì, quando la Finanziaria è stata appena approvata dal governo ma deve ancora affrontare l’iter parlamentare, e considerato che nella fretta di vararla si è preannunciato un decretone integrativo. Se poi si aggiungono cambiamenti in corsa, come la fulminea cancellazione della cosiddetta “tassa sul tubo” sostituita da nuove regole sugli ammortamenti per le stesse società energetiche, lo sconcerto aumenta. Ma tutto è relativo. Giudicandola in assoluto, la Finanziaria 2006 è una goccia d’acqua nel mare dei problemi. Relativizzando, invece non è da buttare: si dedica soprattutto alla riduzione del deficit, cercando di fare meno danni possibile. Certo, manca il sostegno allo sviluppo, ma già sarà difficile recuperare i 12 miliardi per il “rientro” chiesto da Bruxelles (cui adesso si sono aggiunti i 1900 milioni della manovra bis), il rischio sarebbe stato quello di spendere troppo e male. Anche perché quel poco che c’è nella manovra di bilancio per favorire la ripresa, come per esempio il giusto obiettivo del rafforzamento dei distretti, ha stanziate cifre ridicolmente inadeguate.

Dunque, bene ha fatto Tremonti a minimizzare, rendendo la Finanziaria meno “elettorale” possibile. Anche perché se fosse fondato – e non lo è, almeno sul piano strutturale – l’ottimismo berlusconiano intorno a qualche dato in miglioramento della congiuntura, dalla crescita della produzione industriale all’aumento dell’export verso i paesi Ue, certo non avrebbe alcuna relazione con la politica economica degli ultimi anni (centro-sinistra compreso). Anzi, paradossalmente, quella che il governo chiama ripresa – e che invece è una correzione della curva dopo i due trimestri recessivi (l’ultimo del 2004 e il primo di quest’anno) che ci riporta alla fase stagnativa precedente – si è verificata proprio quando viene varata la Finanziaria (relativamente) più rigorosa di tutta la legislatura. La verità è che un vuoto di progetto-paese ha attraversato le due legislature della Seconda Repubblica, e dunque se oggi c’è qualche segnale positivo è perché alcuni imprenditori hanno capito che, in assenza di politica industriale, bisognava adattarsi. Parlo di pezzi del sistema produttivo, quello della meccanica fine e di alta qualità per esempio, che, lontano dai riflettori, non hanno smesso di investire e oggi possono essere considerati i benemeriti della “ripresina”. Il problema è che la crescita non è stata uniforme, ma a macchia di leopardo: i più bravi, quelli che hanno scommesso sull’innovazione e sull’aggressività commerciale, sono cresciuti. Gli altri, specie quelli dei comparti più esposti alle competizione dei paesi emergenti, sono rimasti al palo. Il fatto è che questi ultimi sono la grande maggioranza dei 4,5 milioni di imprese che formano il capitalismo nostrano, e finora la politica ha sbagliato due volte: ha messo in campo mezzi limitati (per averne di più avrebbe dovuto tagliare drasticamente la spesa improduttiva), e ha preferito spenderli a pioggia finendo per inventarsi inutili tutele a favore di comparti in avanzata decomposizione, senza scommettere, selettivamente, sui settori vivi. Ma per fare delle scelte occorre cervello e coraggio. Chi ce li ha?

Pubblicato sul Messaggero del 16 ottobre 2005

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