Il 75% degli elettori disgustato dalla politica
Riformiamo innanzitutto i partiti
Per coinvolgere la gente diamo vita a forze moderne, legate al territorio senza clienteledi Antonio Galdo - 20 ottobre 2005
Prima la nuova legge elettorale che archivia il sistema maggioritario, poi un’imprevista partecipazione popolare di 4 milioni e 300.000 italiani in fila per delle elezioni primarie il cui unico obiettivo, sulla carta, era quello di consentire a Romano Prodi di fare il capo di una coalizione e non l’amministratore di un condominio di sigle e di simboli. In pochi giorni la politica italiana ha vissuto il suo giro di boa: prendiamola come una buona notizia in un Paese dove di solito non accade nulla per decenni. Adesso l’euforia del centrodestra (per la legge elettorale) e del centrosinistra (per l’exploit delle primarie) deve necessariamente fare i conti con la più grave patologia del nostro sistema. I partiti. Ovvero quello che non ha funzionato con il sistema maggioritario e, senza cambiamenti dall’interno, non funzionerà con la legge elettorale proporzionale.
Ho appena letto i risultati di una ricerca pubblicata sulla rivista “Il Mulino”, che manderei volentieri in fotocopia a tutti i leader delle forze politiche. Il 75 per cento degli intervistati denunciano “rabbia e disgusto” per la politica; il 33 per cento affermano di provare “speranza”. Sono numeri in apparenza perfino contraddittori, ma sommati a quello che abbiamo visto domenica scorsa si possono ricondurre a un giudizio sintetico: no ai partiti, sì alla presenza nella vita pubblica. D’altra parte non c’è bisogno di scomodare gli esperti per capire la crisi dei partiti oggi in campo. Prigionieri delle nomenclature, spesso poveri di cultura e di radici oppure avvitati in vecchie e opache identità, radicati sul territorio più per istanze clientelari che non per libere convinzioni e interessi. Incapaci di scaldare i cuori del popolo elettore. E non pensiamo di cavarcela con la comoda storia della crisi globale, comune a tutte le democrazie, della organizzazione dei partiti. E’ una balla. Dalla cronaca delle ultime settimane, tanto per fare qualche esempio, abbiamo appreso che in Gran Bretagna i conservatori inglesi si preparano a lanciare un leader di 38 anni, David Cameron, contro l’imbattibile Tony Blair, un laburista cinquantenne che ha già collezionato tre mandati di capo del governo: in Italia, la prossima sfida elettorale si giocherà tra due leader, entrambi settantenni, già protagonisti dello stesso duello dieci anni fa. In Germania si è formato un nuovo governo con 6 donne ministro: in Italia, con una regìa trasversale, abbiamo appena buttato nel cestino l’opportunità di allargare al femminile la rappresentanza parlamentare. E con l’aria che tira possiamo anche aspettarci le prossime liste elettorali imbottite dei soliti nomi, deputati e senatori uscenti, ovviamente cresimati dagli apparati dei partiti.
Quella partecipazione-speranza, l’unica spinta dal basso che può portare l’Italia fuori da un’infinita transizione, è invece una grande risorsa sulla quale i partiti devono investire per il loro giro di boa. E quando dico i partiti non mi riferisco certo alla storia, la Dc e il Pci, ma a forze politiche del futuro. Moderne, attive, con una presenza a rete sul territorio, collegate in sinergia con l’universo dei movimenti (che non è un monopolio della sinistra, ma ha una sua realtà anche nel centrodestra), capaci di selezionare nuova classe dirigente. Partiti di massa, perché in democrazia si vince con i grandi numeri e non con l’interdizione di una piccola pattuglia di corsari, che non riproducano i difetti e i vizi per i quali è stata liquidata la nostra continuità politica con l’implosione della Prima Repubblica. Partiti con porte e finestre aperte, insomma. E con la consapevolezza che la politica non può essere orientata da gruppi di potere autoreferenziali, dalle lobby che ci provano sempre a fare supplenza, e dalle leggi del marketing che pure hanno una loro utilità in termini di propaganda e di misurazione degli umori dell’opinione pubblica. Servono, sono indispensabili, i partiti. I partiti riformati, senza i quali la rabbia e il disgusto vinceranno sulla speranza, e non solo sul piano statistico.
Pubblicato sul Mattino del 19 ottobre 2005
Ho appena letto i risultati di una ricerca pubblicata sulla rivista “Il Mulino”, che manderei volentieri in fotocopia a tutti i leader delle forze politiche. Il 75 per cento degli intervistati denunciano “rabbia e disgusto” per la politica; il 33 per cento affermano di provare “speranza”. Sono numeri in apparenza perfino contraddittori, ma sommati a quello che abbiamo visto domenica scorsa si possono ricondurre a un giudizio sintetico: no ai partiti, sì alla presenza nella vita pubblica. D’altra parte non c’è bisogno di scomodare gli esperti per capire la crisi dei partiti oggi in campo. Prigionieri delle nomenclature, spesso poveri di cultura e di radici oppure avvitati in vecchie e opache identità, radicati sul territorio più per istanze clientelari che non per libere convinzioni e interessi. Incapaci di scaldare i cuori del popolo elettore. E non pensiamo di cavarcela con la comoda storia della crisi globale, comune a tutte le democrazie, della organizzazione dei partiti. E’ una balla. Dalla cronaca delle ultime settimane, tanto per fare qualche esempio, abbiamo appreso che in Gran Bretagna i conservatori inglesi si preparano a lanciare un leader di 38 anni, David Cameron, contro l’imbattibile Tony Blair, un laburista cinquantenne che ha già collezionato tre mandati di capo del governo: in Italia, la prossima sfida elettorale si giocherà tra due leader, entrambi settantenni, già protagonisti dello stesso duello dieci anni fa. In Germania si è formato un nuovo governo con 6 donne ministro: in Italia, con una regìa trasversale, abbiamo appena buttato nel cestino l’opportunità di allargare al femminile la rappresentanza parlamentare. E con l’aria che tira possiamo anche aspettarci le prossime liste elettorali imbottite dei soliti nomi, deputati e senatori uscenti, ovviamente cresimati dagli apparati dei partiti.
Quella partecipazione-speranza, l’unica spinta dal basso che può portare l’Italia fuori da un’infinita transizione, è invece una grande risorsa sulla quale i partiti devono investire per il loro giro di boa. E quando dico i partiti non mi riferisco certo alla storia, la Dc e il Pci, ma a forze politiche del futuro. Moderne, attive, con una presenza a rete sul territorio, collegate in sinergia con l’universo dei movimenti (che non è un monopolio della sinistra, ma ha una sua realtà anche nel centrodestra), capaci di selezionare nuova classe dirigente. Partiti di massa, perché in democrazia si vince con i grandi numeri e non con l’interdizione di una piccola pattuglia di corsari, che non riproducano i difetti e i vizi per i quali è stata liquidata la nostra continuità politica con l’implosione della Prima Repubblica. Partiti con porte e finestre aperte, insomma. E con la consapevolezza che la politica non può essere orientata da gruppi di potere autoreferenziali, dalle lobby che ci provano sempre a fare supplenza, e dalle leggi del marketing che pure hanno una loro utilità in termini di propaganda e di misurazione degli umori dell’opinione pubblica. Servono, sono indispensabili, i partiti. I partiti riformati, senza i quali la rabbia e il disgusto vinceranno sulla speranza, e non solo sul piano statistico.
Pubblicato sul Mattino del 19 ottobre 2005
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.