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Un progetto difficile, ma non impossibile

“Rifondiamo” la politica italiana

Per uscire dalla <i>deriva putiniana</i>, ci vuole una grande coalizione, un partito-holding

di Enrico Cisnetto - 20 febbraio 2009

Caro Adornato,

nell’impossibilità di essere al convegno di Todi, affido a Liberal le riflessioni che avrei voluto svolgere direttamente ad un appuntamento che considero cruciale per chi – come Società Aperta, che ne ha fatto lo scopo della sua esistenza – intende concorrere alla salvezza del Paese attraverso la rifondazione (non esito a usare questo termine) del suo sistema politico e dei suoi assetti istituzionali. Approfitto della disponibilità di Liberal per fare qualche ragionamento ma soprattutto per lanciare una proposta, intorno alla quale spero che a Todi si possa aprire una discussione.

Parto dalla tua relazione, caro Ferdinando, per dire che la condivido pienamente, anche perché, in termini di analisi, risulta sicuramente esaustiva. In essa ci sono i “nodi irrisolti” della “crisi italiana” che giustamente denunci come le cause del fallimento della Seconda Repubblica. Nodi che oggi possono essere riassunti in quella che è giusto chiamare la “questione democratica”, di cui le forzature costituzionali – quelle già perpetuate e quelle che si profilano – il leaderismo senza partiti e il giustizialismo sono gli aspetti più gravi di un sistema-paese che è ormai scivolato in quella che io definisco la “deriva putiniana”, cioè una democrazia che conserva i suoi tratti formali ma perde quelli sostanziali.

Non si tratta, si badi bene, del “regime berlusconiano” di cui la sinistra straparla da anni, regalando al Cavaliere il lucroso ruolo di vittima. No, si tratta di una malattia grave e progressiva della democrazia, che investe l’intera classe dirigente e la mentalità collettiva del Paese, i cui sintomi più evidenti sono il superamento di fatto dei dettami costituzionali – la Costituzione, si badi bene, si può e si deve cambiare, ma occorre farlo nei luoghi deputati e con le procedure previste, non a strappi “di fatto” – e la creazione di una sorta di “decisionismo senza decisioni”, tutto di natura mediatica. Malattia che è stata il tratto distintivo della Seconda Repubblica nell’intero arco della sua (troppo lunga) durata. E se queste sono le cause, la conseguenza è quel “declino” – economico ma non solo – che non esito a definire drammatico per i caratteri strutturali e permanenti che ha assunto, e che oggi la pesante recessione in cui siamo caduti è destinata a far esplodere.

Ma questa diagnosi è ormai acquisita. Fateci caso: siccome con la “alternanza obbligatoria” che abbiamo inventato – dal 1994 in poi ha sempre perso le elezioni chi stava al governo – tutti sono stati a turno sia maggioranza che opposizione, in questa seconda veste tutti hanno finito col far propria questa valutazione “radicale”. Salvo dimenticarsene quando sono stati al governo. In tutti i casi, il problema oggi non è la diagnosi, ma la condivisione della terapia. E qui sta l’importanza dell’appuntamento di Todi: bisogna che ne esca una proposta forte, intorno alla quale costruire il lavoro politico dei prossimi mesi e anni di tutti coloro che si sentono impegnati alla “rifondazione” della politica italiana.

Prima di fare la mia, di proposta, voglio però premettere una riflessione che ritengo fondamentale: la spaventosa crisi economica che stiamo vivendo, uno tsunami che finora in Italia ha mostrato solo in piccola parte la sua capacità di devastazione, è destinata ad accelerare il disfacimento del “bipolarismo bastardo” già iniziato con la crisi della sinistra. Quello che è accaduto da una parte – caduta del governo Prodi, scomparsa dal Parlamento della sinistra massimalista, involuzione del Pd fino alle dimissioni di Veltroni e sua possibile scissione – è ragionevole attendersi che accada anche sull’altro versante del sistema politico. Non facciamoci ingannare dal risultato delle elezioni sarde: oltre a essere un passaggio decisivo del processo di autodistruzione del centro-sinistra, soprattutto esse rappresentano la certificazione del fatto che finora gli italiani “vedono” ma ancora non “sentono” la recessione, nel senso che la percepiscono come pericolo – tant’è che si aggrappano a Berlusconi nella speranza che li difenda – ma non ne hanno ancora patito sulla loro pelle le conseguenze, cosa che quando avverrà li indurrà a prendersela con chi sta al governo e non avrà fatto niente per evitare la debacle. D’altra parte, pensateci bene: se negli anni del declino – fenomeno inesorabile ma pur sempre lento e poco percepito – la conseguenza politica è stata la scarsa qualità ed efficacia delle due legislature piene della Seconda Repubblica (1996-2001 e 2001-2006) ma anche la loro durata pur solo grazie ad un “effetto di trascinamento”, è ragionevole credere che la recessione – fenomeno pienamente percepito e col passare del tempo sempre più vissuto in prima persona – produrrà conseguenze politiche ben più radicali. Per questo, mentre a luglio, in occasione del precedente convegno di Todi, io avevo sostenuto che la “transizione”, già infinita, sarebbe durata anche questa legislatura perché la ruota della Seconda Repubblica era destinata a compiere l’ennesimo giro, ora invece sono dell’idea che i tempi dello show down siano decisamente più brevi e che pur sulle barricate di una recessione gravissima verrà finalmente il momento per il Paese di mettere mano alla propria fallimentare situazione. Come potrà succedere?

Mi attendo un’implosione del centro-destra, determinata dalla pressione che verrà dalla società – e in particolare dal Nord, questa volta affetto da una nuova “questione settentrionale” che avrà i caratteri della chiusura delle imprese e della conseguente disoccupazione – pressione che troverà pronta la Lega a intercettarla politicamente, accentuando i suoi caratteri di “partito di protesta” a discapito dei suoi già deboli geni di “partito di governo”. Con tutto quello che potrà significare, sia sotto il profilo politico che quello elettorale. Certo, Berlusconi venderà cara la pelle. Per esempio, mi attendo che di fronte all’esplosione della recessione dica al Paese che la colpa delle mancate decisioni necessarie per fronteggiarla è della deriva “parlamentarista” di un sistema costituzionale non a caso già definito “sovietico”, e penso che tutto questo dovrà spingere tutti i sinceri democratici ad una ferma reazione. Ma non credo che la diga berlusconiana saprà resistere più di tanto, e la sua uscita da quel “mercato del consenso” di cui in questi anni è stato insuperato (e purtroppo inutilmente imitato) protagonista, creerà le condizioni per passare davvero alla Terza Repubblica. E qui viene la proposta, che torno ad avanzare dopo averla già lanciata – devo dire inutilmente – nel recente passato. Lo faccio non solo a titolo personale, ma soprattutto a nome di Società Aperta, il movimento che ho fondato e presiedo, e che danni si batte per una Terza Repubblica che nasca da un’Assemblea Costituente e che per sconfiggere il declino dia vita ad una stagione politica di “grande coalizione”.

L’idea è semplice: costruiamo un “partito holding”. Mi spiego. Con la fine dell’era berlusconiana – e considerando non trasmettibile per via ereditaria il Pdl, o quantomeno la grande maggioranza dei voti di cui dispone – l’orologio della politica tornerà al 1993, prima della “discesa in campo” del Cavaliere, riaprendo quella voragine di rappresentanza dei ceti medi e della borghesia, insomma della maggioranza moderata degli italiani, che allora rimasero orfani della Dc e dei partiti laici del centro-sinistra (quello vero).

In più, ci sarà – anzi, già c’è ora – una voragine altrettanto grande a sinistra, visto che la pur allora perdente “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto valeva mille volte di più della “armata sgangherata” della sinistra di oggi. Dunque, due grandi serbatoi di voti, due mondi peraltro in via di mescolamento, che dovranno trovare un’offerta politica adeguata a rappresentarli. La risposta non può che essere un “nuovo partito nuovo”. Alla sua costruzione Società Aperta ha tentativamente lavorato in questi anni, a più riprese e con diversi interlocutori, ma senza esito. Naturalmente non mi consola il fatto che laddove ho fallito io altri non abbiamo avuto migliore fortuna. Ma la “verginità” del tentativo gioca comunque a favore, induce a riprovarci.

Tu, caro Adornato, dici: “c’è l’Unione di Centro, che deriva dall’incontro dell’Udc con varie forze popolari, da qui bisogna partire per costruire un partito capace di interpretare la necessaria rigenerazione del Paese”. Bene. Un punto di partenza ci vuole. E tanto meglio, poi, se ha superato lo tsunami delle “elezioni della semplificazione” del 2008, si è efficacemente collocato al centro del sistema politico, ha di volta in volta individuato a livello locale, senza pregiudizi, gli alleati giusti.

Tutto questo consente a Casini di mettersi a buon titolo alla testa di un complesso disegno di ristrutturazione dell’intera geografia politica italiana. Ma un conto è coltivare questa ambizione, altro è riuscire a realizzarla. E per farcela, l’Unione di Centro non basta. A parte il facile gioco delle sigle – sempre di Udc si tratta – francamente si fa fatica a comprendere la differenza tra la “vecchia” Unione democratico-cristiana e la “nuova” Unione di Centro. C’è bisogno di molto di più e di molto meglio. Ma siccome, nello stesso tempo, non è utile il suo scioglimento a favore di qualcosa d’altro, né è pensabile che essa possa essere in grado di lanciare “opa” su altre forze, né infine in questa fase ci sono il tempo e le condizioni per una “grande fusione” di forze diverse, ecco allora l’idea del “partito holding”, cioè di una nuova formazione in cui tutte le forze esistenti – partiti, associazioni, fondazioni, movimenti – possano federarsi senza per questo perdere la loro identità e rinunciare alla loro autonomia. Questo consentirebbe a laici e cattolici, e alle loro diverse anime, di incontrarsi intorno ad un progetto rifondativo del Paese, della sua democrazia, delle sue regole basilari, ma nello stesso di mantenere intatta la loro capacità di iniziativa e battaglia politica sui temi più propri alle rispettive radici politico-culturali.

Per capirci, sulle tematiche etiche liberi tutti, mentre sul programma di governo – un grande “progetto Italia” che guardi all’esperienza storica dell’asse De Gasperi-La Malfa – piena convergenza e assoluta lealtà. Al primo lavoro ci penseranno i soggetti esistenti (o quelli che vorranno costituirsi intorno a delle specificità), al secondo dovrà badare il partito holding, che poi sarà quello che dovrà presentarsi alle elezioni e riscuotere il consenso di quei tanti, verosimilmente la maggioranza degli italiani, che saranno politicamente orfani. Chi penso potranno essere gli azionisti di questa nuovo soggetto politico? L’Udc, ovviamente, e le diverse realtà del cattolicesimo liberale. E poi i socialisti, i repubblicani e i liberali di tutte le diaspore. Ma anche le forze laiche e cattoliche dell’ex (?) Margherita, e le componenti maggiormente riformiste degli ex (?) Ds. Così come i settori non di matrice aziendalista di Forza Italia (Pisanu, per fare un nome).

Senza contare quelle realtà della società civile, a cominciare da Società Aperta, che in questi anni hanno tenuto accesa la fiammella della speranza che non tutto il Paese si omologasse all’italico bipolarismo straccione.
Lo so, si tratta di un progetto difficile, complicato, fuori dagli schemi. Ma, mi domando, ci sono alternative?
Un caro saluto di buon lavoro a Todi

Enrico Cisnetto
Presidente Società Aperta

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