Lo spartiacque tra i due termini
Relativismo significa tolleranza?
Il pluralismo culturale è inevitabile, ma le opinioni non hanno tutte lo stesso valoredi Livio Ghersi - 15 maggio 2008
Un lettore scrive al "Corriere della Sera". Insegno Storia e Filosofia nel Liceo classico della mia città — precisa — e mi riconosco pienamente nella categoria del "relativismo etico". Cosa devo aspettarmi, chiede, dopo che nel suo discorso di insediamento il neo-eletto Presidente della Camera dei Deputati, Gianfranco Fini, ha messo in guardia contro i pericoli derivanti dal relativismo?
Gli risponde, pensoso, Sergio Romano ("Corriere della Sera", 10 maggio 2008, pag. 37): «osservo semplicemente che il "relativismo culturale", per quanto mi concerne, si chiama tolleranza». In queste poche righe si concentra l’essenza del pensiero "politicamente corretto": la modernità è necessariamente improntata al valore della tolleranza; possono parlare contro il relativismo un ultra-conservatore e tradizionalista quale Papa Ratzinger (figuriamoci, è pure tedesco!), o giusto un post-fascista quale Fini. Nel mio piccolo, anch’io mi sono ripetutamente espresso contro il relativismo, ma il mio giudizio conta ben poco e può essere facilmente liquidato perché espressione di un punto di vista "provinciale" (figuriamoci, pure meridionale!), come amabilmente qualcuno mi ha ricordato.
Vediamo di ragionare, perché la logica non è né progressista, né conservatrice. E’ corretto usare le espressioni "relativismo" e "tolleranza" come sinonimi? No, non lo è. Partiamo dal relativismo. L’esercizio delle libertà fondamentali degli individui, garantite dalla Costituzione, porta come inevitabile effetto il pluralismo dei punti di vista e delle opinioni. Poiché in un ordinamento giuridico fondato su princìpi liberal-democratici a nessuna autorità, civile o religiosa, è riconosciuto il potere di dichiarare in modo definitivo e vincolante quali punti di vista e quali opinioni siano corrispondenti a verità, e quali no, il relativismo è un dato strutturale di un Paese occidentale come il nostro. Per un intellettuale liberal-radicale, o per una persona che vorrebbe interpretare il buon senso comune, quale Sergio Romano, il discorso si chiude qui.
Per quanto riguarda la tolleranza, la sua esigenza si afferma storicamente come unica via di uscita possibile dalle guerre di religione, quindi come antidoto affinché non si riproponessero. Con la pace di Vestfalia del 1648, che pone fine alla guerra dei Trent’anni, si riconosce che nell’Impero ed in tutti i regni cristiani dell’Europa Occidentale continentale tre religioni possono essere legittimamente praticate (e, dunque, devono coesistere): la cattolica, la luterana, la calvinista. E’ la premessa del moderno concetto della laicità dello Stato.
Ma già prima della Riforma protestante, molti avevano compreso che lo spirito del Cristianesimo, inteso nel modo giusto, comanda di amare il prossimo, non di usargli violenza, e che le verità della religione si affermano con la convinzione e con la testimonianza che viene dall’esempio dei comportamenti praticati, mentre non si possono imporre. La verità vuole conquistare gli spiriti; non sa che farsene di forza bruta e di violenza: questi semmai sono i metodi propri del "principe del mondo" (Satana). Ritorna alla mente il geniale racconto dell’incontro fra il Grande Inquisitore e Gesù Cristo, fatto da Dostoevskij ne "I fratelli Karamazov" (1880).
E Dostoevskij, in quel racconto, riproponeva la parabola delle tentazioni di Gesù nel deserto, come sono descritte nei Vangeli (Matteo, 4, 1-11; Luca, 4, 1-13; Marco, 1, 12-13). Spiriti magni, come l’italiano Tommaso d’Aquino, santo e dottore della Chiesa, hanno insegnato che la ragione non è contro la fede; la ragione è un dono di Dio, e come tutti i doni di Dio, è stata data agli esseri umani perché ne facciano buon uso. L’Umanesimo italiano concilia l’adesione allo spirito cristiano con la riscoperta dei tesori di saggezza che vengono dal mondo antico, pre-cristiano. Marsilio Ficino, studioso e divulgatore di Platone, non riteneva di insegnare cose in contrasto con la rivelazione cristiana. Guardandoci intorno, in Europa, Alberto Magno (13° secolo) e Niccolò da Cusa, detto Cusano (15° secolo), erano entrambi ecclesiastici.
L’umanesimo cristiano ha la sua espressione massima in Erasmo da Rotterdam, che già ha insegnato tutto ciò che c’è da sapere sulla tolleranza, ben prima di John Locke e di Voltaire. Per venire ai giorni nostri, l’esigenza di tolleranza religiosa si è compiutamente realizzata mediante la concezione della laicità dello Stato, cioè con l’affermazione del principio che le leggi si applicano in modo uguale a tutti i cittadini e che nessuno può ricevere un trattamento differenziato, in positivo o in negativo, per il fatto di professare, o di non professare, un determinato credo religioso, o determinate convinzioni filosofiche, o politiche. Il concetto di laicità dello Stato è parte integrante ed essenziale del pensiero liberale.
I due concetti finora considerati, relativismo (nel senso di pluralismo culturale), e tolleranza (che storicamente si afferma per regolare i reciproci rapporti fra le diverse fedi religiose) hanno entrambi a che fare con la dimensione pubblica. L’incomprensione nasce dal fatto che i critici del relativismo (tra i quali, nella mia modestia, mi onoro di militare) non si limitano a considerare la questione dal punto di vista dell’ordinamento giuridico (cioè della sfera pubblica), ma si preoccupano pure degli effetti che questa situazione determina nella sfera privata di ogni singolo cittadino. Ragionando in termini giuridici, Voltaire aveva certamente ragione nel difendere il diritto di ciascuno di esprimere la propria opinione, anche quando questa fosse diversa da quella del medesimo Voltaire.
Invece, dall’altro punto di vista, la domanda è: l’individuo come recepisce il dato del pluralismo culturale? Secondo me, lo avverte come caos; tanto più se l’individuo è psicologicamente fragile, quale è un ragazzo ancora in formazione. Il dibattito pubblico, anche al livello più alto, quello dei libri "seri", si risolve appunto in un grande caos; un musicista parlerebbe di un rumore assordante, pieno di suoni striduli e di dissonanze, nell’insieme tanto sgradevole da far desiderare il silenzio.
Il secondo motivo di incomprensione riguarda i rapporti fra diritto ed etica. Secondo i critici del relativismo, il diritto non ha superato, né potrà mai superare, l’etica. Invece i relativisti si alleano ai positivisti giuridici nel sostenere che, nella modernità, non si deve più parlare di "bene" e di "male" (che sarebbero idee superate, di matrice religiosa), perché l’unica cosa che conta sono le norme del diritto positivo: l’unica distinzione è fra quanto l’ordinamento giuridico espressamente vieta e quanto consente (tutto ciò che non è vietato).
In realtà, il diritto è incerto: perché quanto più la società è relativista e frammentata, tanto più ciascuno vorrebbe ampliare, o restringere, l’ambito dei divieti, secondo le proprie opinioni e convenienze. Così il diritto, a partire dalle leggi penali e di procedura penale, è il campo delle mutevoli e sempre cangianti maggioranze parlamentari. Anche qui, il comune cittadino ne ricava un sentimento di sgomento e di insicurezza. E’ "disorientato". Si aggiunga che l’inflazione normativa, cioè l’eccesso di disposizioni, la pretesa di voler regolamentare tutto, provoca, a suo volta, fastidio ai cittadini e svilisce la funzione della legge.
Tutti sanno poi che l’ordinamento giuridico, ogni ordinamento giuridico, si fonda sulla spontanea osservanza delle norme. Se i cittadini, nella loro stragrande maggioranza, non si conformassero spontaneamente alle leggi ed ai comandi legittimi delle autorità, nessuna minaccia di sanzione e nessuna forza coattiva riuscirebbero ad imporsi in modo generalizzato. Possiamo immaginare uno Stato in cui occorra un poliziotto per controllare ogni singolo cittadino (e, inoltre, chi controllerebbe il poliziotto)? I critici del relativismo pensano appunto che per garantire la spontanea osservanza delle norme occorra che queste vengano riconosciute come "giuste". Dall’etica non si esce. All’etica si ritorna.
I relativisti sono soddisfatti della società, del mondo, in cui vivono? Sono orgogliosi di questa "modernità" che riconosce come unico dio il denaro? Non avvertono il degrado inarrestabile della convivenza civile, la devastazione dell’ambiente naturale, il prevalere della volgarità, lo scatenamento degli istinti peggiori? Non comprendono che quello che, eufemisticamente, viene descritto come "disagio giovanile", altro non è che il risultato logico di una società che ha perso i propri punti di riferimento positivi, che non ha speranza nel futuro perché questo presente non lascia presagire alcunché di buono?
Personalmente, ritengo che Papa Benedetto XVI faccia quello che, nelle condizioni date, deve fare un’autorità religiosa: denunciare le contraddizioni ed i pericoli del mondo moderno ed indicare una possibile via d’uscita. In realtà, non viene perdonata al Papa una critica tanto insistita della modernità. I relativisti pensano che sia un caso se, in tutto il mondo, i valori religiosi dimostrano una sorprendente capacità di penetrazione in quantità crescenti di popolazione, a partire dai Paesi dell’Islam? Perché il fondamentalismo religioso ha tanta presa, nonostante i suoi evidenti difetti? Non è pure questo un segno distintivo dell’attuale fase storica, il più chiaro sintomo che il modello di società espresso dall’Occidente è in crisi e, comunque, non viene più avvertito come necessariamente vincente, oltre che non desiderabile?
Intorno a noi vediamo macerie morali e reali cumuli di immondizia. Per ricostruire, bisogna partire da valori capaci di conquistare gli spiriti. Il valore della libertà, in cui credo, non significa licenza, ma onerosa e spesso dolorosa assunzione di responsabilità. La libertà ci rende responsabili della nostra esistenza, delle nostre scelte quotidiane. E’ fatica, è travaglio. La libertà accresce il proprio valore quando riconosce l’esigenza di un altro valore, altrettanto fondamentale, quello della verità. I due valori, per determinare effetti positivi, devono procedere insieme. A nulla vale una verità imposta con la forza. A nulla vale una libertà che, senza l’orientamento dato dalla ricerca della verità, può facilmente tradursi in degradazione ed in pulsioni auto-distruttive.
Libertà e verità, tenute insieme, consentono di trovare il giusto orientamento anche rispetto ai comandamenti che vengono dalle autorità religiose. Infatti, riconoscere la libertà come valore supremo significa non accettare il principio di autorità in questioni di coscienza. Nei momenti decisivi, quando si tratta di compiere scelte rischiose e moralmente difficili, dopo aver valutato tutti i termini del problema e considerato i punti di vista degli altri, è in sé stessi che occorre trovare la soluzione. Non ci sono gerarchie o ubbidienze che tengano rispetto ad una scelta che la coscienza afferma essere quella giusta. E la coscienza comanda ciò che si ritiene vero (ritorna sempre il valore primario della verità). Così, nella coscienza e nello spirito critico degli individui si trova l’antidoto per contrastare ogni forma di strumentalizzazione politica delle religioni.
Bisognerebbe insegnare ai ragazzi, fin da piccoli, che ogni individuo è una storia. Come tutte le storie, ha un inizio (la nascita), un suo percorso, una fine (la morte individuale). Il punto di partenza è sempre determinato da forze esterne: le condizioni familiari, sociali, ambientali. Lo sviluppo può essere tanto più determinato dallo stesso protagonista della storia, quanto più egli esercita ed irrobustisce la propria volontà, che assume degli obiettivi e li persegue. La vita è cambiamento: vivendo si cambia incessantemente, non soltanto nel fisico, ma proprio nel modo di pensare: perché le esperienze, gli studi, le nuove conoscenze, ci fanno cambiare.
L’incessante trasformazione è un dato che, comunque, accomuna tutti gli esseri umani. Quando l’esigenza di verità si radica nella storia di una persona, il fine dell’esistenza diventa quello di governare le proprie trasformazioni individuali in direzione di ciò che è vero, autentico, essenziale, di ciò che davvero rende la vita degna e meritevole di essere vissuta. Si tratta di un processo che contempla inevitabili cadute ed errori; ma si può sempre ritrovare la strada, rimediare agli errori, e diventare operatori di bene nel presente e nel futuro. Essere consapevoli che noi stessi siamo cambiati ed ancora possiamo cambiare, deve renderci più prudenti nel giudicare gli altri.
Di solito il giudizio si basa sul fatto che il tale fece una certa cosa, o ne dichiarò un’altra, in una data precisa. Dovremmo chiederci: cosa è diventato quel tale oggi? Considerando quanto noi stessi ci siamo trasformati nel medesimo intervallo di tempo. La concezione dell’individuo, non come una realtà data una volta per tutte, ma come processo storico che può essere indirizzato da una volontà di bene, è idea potenzialmente capace di trasformare il mondo. Centomila persone che, concretamente, nei loro comportamenti, nel loro quotidiano rapportarsi agli altri, sono capaci di diventare migliori, rendono migliore la società. Milioni di persone che, nel mondo, fanno la medesima cosa, rendono migliore la Terra. Vengo alle mie conclusioni.
1) L’indifferentismo morale va combattuto. Alcune cose vanno denunciate come "male", sempre e dovunque. Ad esempio, usare violenza nei confronti dei bambini, dei vecchi, dei malati, delle persone incapaci di difendersi, è "male", indipendentemente dal fatto che esista, o meno, una norma giuridica che preveda quella fattispecie come reato. Ad esempio, la tortura, o la riduzione in schiavitù di esseri umani, sono crimini contro l’umanità, cioè sono "male", sempre e dovunque.
2) Nessun essere umano possiede la verità assoluta e definitiva, ma questo non significa che la verità non meriti di essere ricercata, come il bene più prezioso. La capacità di considerare le ragioni degli altri, l’attitudine autocritica che può portare a rivedere le proprie precedenti posizioni, il dubbio metodico, non sono elementi comportamentali fini a se stessi: sono tutti in funzione del superamento di precedenti errori, verso una più piena affermazione della verità.
3) Il pluralismo culturale è inevitabile, ma le opinioni non hanno tutte lo stesso valore. La forza di una opinione sta nella bontà degli argomenti che la sostengono.
4) Il sapere accumulatosi in oltre cinquemila anni di Storia umana (quella di cui abbiamo contezza) non è inutile, anche dal punto di vista dell’esigenza di verità. La Scienza ci dà un insieme di certezze che sono "stabili"; nel senso che potrebbero essere superate (falsificate) da scoperte scientifiche successive, ma che vanno ritenute valide finché queste scoperte non avvengano. Anche la Storia è tutt’altro che il campo delle opinioni e delle interpretazioni. Il sapere storico si costruisce in modo rigoroso. Gli eventi storici sono "certi", documentati. La filologia è in grado di smascherare i falsi.
5) Chi ha dei saldi princìpi morali e delle ferme convinzioni non può tollerare, nel senso di lasciar correre, idee che ritiene pericolose per la civile convivenza, né opinioni che giudica gravemente viziate da errore, o ingannevoli. Anzi, ha il dovere morale di intervenire, come può, per contrastare quelle idee e quelle opinioni. Così, dal contrasto delle posizioni, manifestato senza infingimenti, la verità si farà strada nel dibattito pubblico.
6) La tolleranza, rettamente intesa, non è mai tolleranza di idee, ma si risolve nel dovere di rispettare la dignità umana del proprio interlocutore. Il consequenziarismo dottrinario deve sempre arrestarsi prima di offendere l’integrità fisica e morale di colui con cui discutiamo; siamo tenuti a rispettare la persona umana che è in lui. Anche quando siamo convinti che sbaglia, lasciamo che il tempo lo aiuti a trovare la sua giusta via verso la verità. In termini religiosi: bisogna condannare l’errore, ma salvare l’errante.
Quanto detto finora viene prima della politica, prima della democrazia, prima del liberalismo. Ha a che fare con la riconquista della difficile arte di fare il miglior uso possibile della propria vita, cosa molto diversa dal mero sopravvivere. Il miglior uso possibile non coincide necessariamente con il successo mondano, campo in cui, purtroppo, il "principe di questo mondo" ha sempre buone carte da giocare.
Tuttavia, se si affermassero dei valori largamente condivisi, prevalenti perché hanno sconfitto le obiezioni nel libero confronto, ne potrebbe scaturire un’egemonia politico-culturale capace di dare un preciso indirizzo alle istituzioni di governo e rappresentative, all’ordinamento giuridico, alle regole del mercato, ai contenuti formativi dell’istruzione di competenza della Scuola e dell’Università. Sapiente è colui che «ordina rettamente le cose» e sa «ben governarle» ha scritto Tommaso d’Aquino nella "Summa contra Gentiles". La politica "alta" non si appaga della gestione quotidiana di un presente sempre più frustrante e insoddisfacente, ma tende a superarlo per determinare nuova Storia.
Gli risponde, pensoso, Sergio Romano ("Corriere della Sera", 10 maggio 2008, pag. 37): «osservo semplicemente che il "relativismo culturale", per quanto mi concerne, si chiama tolleranza». In queste poche righe si concentra l’essenza del pensiero "politicamente corretto": la modernità è necessariamente improntata al valore della tolleranza; possono parlare contro il relativismo un ultra-conservatore e tradizionalista quale Papa Ratzinger (figuriamoci, è pure tedesco!), o giusto un post-fascista quale Fini. Nel mio piccolo, anch’io mi sono ripetutamente espresso contro il relativismo, ma il mio giudizio conta ben poco e può essere facilmente liquidato perché espressione di un punto di vista "provinciale" (figuriamoci, pure meridionale!), come amabilmente qualcuno mi ha ricordato.
Vediamo di ragionare, perché la logica non è né progressista, né conservatrice. E’ corretto usare le espressioni "relativismo" e "tolleranza" come sinonimi? No, non lo è. Partiamo dal relativismo. L’esercizio delle libertà fondamentali degli individui, garantite dalla Costituzione, porta come inevitabile effetto il pluralismo dei punti di vista e delle opinioni. Poiché in un ordinamento giuridico fondato su princìpi liberal-democratici a nessuna autorità, civile o religiosa, è riconosciuto il potere di dichiarare in modo definitivo e vincolante quali punti di vista e quali opinioni siano corrispondenti a verità, e quali no, il relativismo è un dato strutturale di un Paese occidentale come il nostro. Per un intellettuale liberal-radicale, o per una persona che vorrebbe interpretare il buon senso comune, quale Sergio Romano, il discorso si chiude qui.
Per quanto riguarda la tolleranza, la sua esigenza si afferma storicamente come unica via di uscita possibile dalle guerre di religione, quindi come antidoto affinché non si riproponessero. Con la pace di Vestfalia del 1648, che pone fine alla guerra dei Trent’anni, si riconosce che nell’Impero ed in tutti i regni cristiani dell’Europa Occidentale continentale tre religioni possono essere legittimamente praticate (e, dunque, devono coesistere): la cattolica, la luterana, la calvinista. E’ la premessa del moderno concetto della laicità dello Stato.
Ma già prima della Riforma protestante, molti avevano compreso che lo spirito del Cristianesimo, inteso nel modo giusto, comanda di amare il prossimo, non di usargli violenza, e che le verità della religione si affermano con la convinzione e con la testimonianza che viene dall’esempio dei comportamenti praticati, mentre non si possono imporre. La verità vuole conquistare gli spiriti; non sa che farsene di forza bruta e di violenza: questi semmai sono i metodi propri del "principe del mondo" (Satana). Ritorna alla mente il geniale racconto dell’incontro fra il Grande Inquisitore e Gesù Cristo, fatto da Dostoevskij ne "I fratelli Karamazov" (1880).
E Dostoevskij, in quel racconto, riproponeva la parabola delle tentazioni di Gesù nel deserto, come sono descritte nei Vangeli (Matteo, 4, 1-11; Luca, 4, 1-13; Marco, 1, 12-13). Spiriti magni, come l’italiano Tommaso d’Aquino, santo e dottore della Chiesa, hanno insegnato che la ragione non è contro la fede; la ragione è un dono di Dio, e come tutti i doni di Dio, è stata data agli esseri umani perché ne facciano buon uso. L’Umanesimo italiano concilia l’adesione allo spirito cristiano con la riscoperta dei tesori di saggezza che vengono dal mondo antico, pre-cristiano. Marsilio Ficino, studioso e divulgatore di Platone, non riteneva di insegnare cose in contrasto con la rivelazione cristiana. Guardandoci intorno, in Europa, Alberto Magno (13° secolo) e Niccolò da Cusa, detto Cusano (15° secolo), erano entrambi ecclesiastici.
L’umanesimo cristiano ha la sua espressione massima in Erasmo da Rotterdam, che già ha insegnato tutto ciò che c’è da sapere sulla tolleranza, ben prima di John Locke e di Voltaire. Per venire ai giorni nostri, l’esigenza di tolleranza religiosa si è compiutamente realizzata mediante la concezione della laicità dello Stato, cioè con l’affermazione del principio che le leggi si applicano in modo uguale a tutti i cittadini e che nessuno può ricevere un trattamento differenziato, in positivo o in negativo, per il fatto di professare, o di non professare, un determinato credo religioso, o determinate convinzioni filosofiche, o politiche. Il concetto di laicità dello Stato è parte integrante ed essenziale del pensiero liberale.
I due concetti finora considerati, relativismo (nel senso di pluralismo culturale), e tolleranza (che storicamente si afferma per regolare i reciproci rapporti fra le diverse fedi religiose) hanno entrambi a che fare con la dimensione pubblica. L’incomprensione nasce dal fatto che i critici del relativismo (tra i quali, nella mia modestia, mi onoro di militare) non si limitano a considerare la questione dal punto di vista dell’ordinamento giuridico (cioè della sfera pubblica), ma si preoccupano pure degli effetti che questa situazione determina nella sfera privata di ogni singolo cittadino. Ragionando in termini giuridici, Voltaire aveva certamente ragione nel difendere il diritto di ciascuno di esprimere la propria opinione, anche quando questa fosse diversa da quella del medesimo Voltaire.
Invece, dall’altro punto di vista, la domanda è: l’individuo come recepisce il dato del pluralismo culturale? Secondo me, lo avverte come caos; tanto più se l’individuo è psicologicamente fragile, quale è un ragazzo ancora in formazione. Il dibattito pubblico, anche al livello più alto, quello dei libri "seri", si risolve appunto in un grande caos; un musicista parlerebbe di un rumore assordante, pieno di suoni striduli e di dissonanze, nell’insieme tanto sgradevole da far desiderare il silenzio.
Il secondo motivo di incomprensione riguarda i rapporti fra diritto ed etica. Secondo i critici del relativismo, il diritto non ha superato, né potrà mai superare, l’etica. Invece i relativisti si alleano ai positivisti giuridici nel sostenere che, nella modernità, non si deve più parlare di "bene" e di "male" (che sarebbero idee superate, di matrice religiosa), perché l’unica cosa che conta sono le norme del diritto positivo: l’unica distinzione è fra quanto l’ordinamento giuridico espressamente vieta e quanto consente (tutto ciò che non è vietato).
In realtà, il diritto è incerto: perché quanto più la società è relativista e frammentata, tanto più ciascuno vorrebbe ampliare, o restringere, l’ambito dei divieti, secondo le proprie opinioni e convenienze. Così il diritto, a partire dalle leggi penali e di procedura penale, è il campo delle mutevoli e sempre cangianti maggioranze parlamentari. Anche qui, il comune cittadino ne ricava un sentimento di sgomento e di insicurezza. E’ "disorientato". Si aggiunga che l’inflazione normativa, cioè l’eccesso di disposizioni, la pretesa di voler regolamentare tutto, provoca, a suo volta, fastidio ai cittadini e svilisce la funzione della legge.
Tutti sanno poi che l’ordinamento giuridico, ogni ordinamento giuridico, si fonda sulla spontanea osservanza delle norme. Se i cittadini, nella loro stragrande maggioranza, non si conformassero spontaneamente alle leggi ed ai comandi legittimi delle autorità, nessuna minaccia di sanzione e nessuna forza coattiva riuscirebbero ad imporsi in modo generalizzato. Possiamo immaginare uno Stato in cui occorra un poliziotto per controllare ogni singolo cittadino (e, inoltre, chi controllerebbe il poliziotto)? I critici del relativismo pensano appunto che per garantire la spontanea osservanza delle norme occorra che queste vengano riconosciute come "giuste". Dall’etica non si esce. All’etica si ritorna.
I relativisti sono soddisfatti della società, del mondo, in cui vivono? Sono orgogliosi di questa "modernità" che riconosce come unico dio il denaro? Non avvertono il degrado inarrestabile della convivenza civile, la devastazione dell’ambiente naturale, il prevalere della volgarità, lo scatenamento degli istinti peggiori? Non comprendono che quello che, eufemisticamente, viene descritto come "disagio giovanile", altro non è che il risultato logico di una società che ha perso i propri punti di riferimento positivi, che non ha speranza nel futuro perché questo presente non lascia presagire alcunché di buono?
Personalmente, ritengo che Papa Benedetto XVI faccia quello che, nelle condizioni date, deve fare un’autorità religiosa: denunciare le contraddizioni ed i pericoli del mondo moderno ed indicare una possibile via d’uscita. In realtà, non viene perdonata al Papa una critica tanto insistita della modernità. I relativisti pensano che sia un caso se, in tutto il mondo, i valori religiosi dimostrano una sorprendente capacità di penetrazione in quantità crescenti di popolazione, a partire dai Paesi dell’Islam? Perché il fondamentalismo religioso ha tanta presa, nonostante i suoi evidenti difetti? Non è pure questo un segno distintivo dell’attuale fase storica, il più chiaro sintomo che il modello di società espresso dall’Occidente è in crisi e, comunque, non viene più avvertito come necessariamente vincente, oltre che non desiderabile?
Intorno a noi vediamo macerie morali e reali cumuli di immondizia. Per ricostruire, bisogna partire da valori capaci di conquistare gli spiriti. Il valore della libertà, in cui credo, non significa licenza, ma onerosa e spesso dolorosa assunzione di responsabilità. La libertà ci rende responsabili della nostra esistenza, delle nostre scelte quotidiane. E’ fatica, è travaglio. La libertà accresce il proprio valore quando riconosce l’esigenza di un altro valore, altrettanto fondamentale, quello della verità. I due valori, per determinare effetti positivi, devono procedere insieme. A nulla vale una verità imposta con la forza. A nulla vale una libertà che, senza l’orientamento dato dalla ricerca della verità, può facilmente tradursi in degradazione ed in pulsioni auto-distruttive.
Libertà e verità, tenute insieme, consentono di trovare il giusto orientamento anche rispetto ai comandamenti che vengono dalle autorità religiose. Infatti, riconoscere la libertà come valore supremo significa non accettare il principio di autorità in questioni di coscienza. Nei momenti decisivi, quando si tratta di compiere scelte rischiose e moralmente difficili, dopo aver valutato tutti i termini del problema e considerato i punti di vista degli altri, è in sé stessi che occorre trovare la soluzione. Non ci sono gerarchie o ubbidienze che tengano rispetto ad una scelta che la coscienza afferma essere quella giusta. E la coscienza comanda ciò che si ritiene vero (ritorna sempre il valore primario della verità). Così, nella coscienza e nello spirito critico degli individui si trova l’antidoto per contrastare ogni forma di strumentalizzazione politica delle religioni.
Bisognerebbe insegnare ai ragazzi, fin da piccoli, che ogni individuo è una storia. Come tutte le storie, ha un inizio (la nascita), un suo percorso, una fine (la morte individuale). Il punto di partenza è sempre determinato da forze esterne: le condizioni familiari, sociali, ambientali. Lo sviluppo può essere tanto più determinato dallo stesso protagonista della storia, quanto più egli esercita ed irrobustisce la propria volontà, che assume degli obiettivi e li persegue. La vita è cambiamento: vivendo si cambia incessantemente, non soltanto nel fisico, ma proprio nel modo di pensare: perché le esperienze, gli studi, le nuove conoscenze, ci fanno cambiare.
L’incessante trasformazione è un dato che, comunque, accomuna tutti gli esseri umani. Quando l’esigenza di verità si radica nella storia di una persona, il fine dell’esistenza diventa quello di governare le proprie trasformazioni individuali in direzione di ciò che è vero, autentico, essenziale, di ciò che davvero rende la vita degna e meritevole di essere vissuta. Si tratta di un processo che contempla inevitabili cadute ed errori; ma si può sempre ritrovare la strada, rimediare agli errori, e diventare operatori di bene nel presente e nel futuro. Essere consapevoli che noi stessi siamo cambiati ed ancora possiamo cambiare, deve renderci più prudenti nel giudicare gli altri.
Di solito il giudizio si basa sul fatto che il tale fece una certa cosa, o ne dichiarò un’altra, in una data precisa. Dovremmo chiederci: cosa è diventato quel tale oggi? Considerando quanto noi stessi ci siamo trasformati nel medesimo intervallo di tempo. La concezione dell’individuo, non come una realtà data una volta per tutte, ma come processo storico che può essere indirizzato da una volontà di bene, è idea potenzialmente capace di trasformare il mondo. Centomila persone che, concretamente, nei loro comportamenti, nel loro quotidiano rapportarsi agli altri, sono capaci di diventare migliori, rendono migliore la società. Milioni di persone che, nel mondo, fanno la medesima cosa, rendono migliore la Terra. Vengo alle mie conclusioni.
1) L’indifferentismo morale va combattuto. Alcune cose vanno denunciate come "male", sempre e dovunque. Ad esempio, usare violenza nei confronti dei bambini, dei vecchi, dei malati, delle persone incapaci di difendersi, è "male", indipendentemente dal fatto che esista, o meno, una norma giuridica che preveda quella fattispecie come reato. Ad esempio, la tortura, o la riduzione in schiavitù di esseri umani, sono crimini contro l’umanità, cioè sono "male", sempre e dovunque.
2) Nessun essere umano possiede la verità assoluta e definitiva, ma questo non significa che la verità non meriti di essere ricercata, come il bene più prezioso. La capacità di considerare le ragioni degli altri, l’attitudine autocritica che può portare a rivedere le proprie precedenti posizioni, il dubbio metodico, non sono elementi comportamentali fini a se stessi: sono tutti in funzione del superamento di precedenti errori, verso una più piena affermazione della verità.
3) Il pluralismo culturale è inevitabile, ma le opinioni non hanno tutte lo stesso valore. La forza di una opinione sta nella bontà degli argomenti che la sostengono.
4) Il sapere accumulatosi in oltre cinquemila anni di Storia umana (quella di cui abbiamo contezza) non è inutile, anche dal punto di vista dell’esigenza di verità. La Scienza ci dà un insieme di certezze che sono "stabili"; nel senso che potrebbero essere superate (falsificate) da scoperte scientifiche successive, ma che vanno ritenute valide finché queste scoperte non avvengano. Anche la Storia è tutt’altro che il campo delle opinioni e delle interpretazioni. Il sapere storico si costruisce in modo rigoroso. Gli eventi storici sono "certi", documentati. La filologia è in grado di smascherare i falsi.
5) Chi ha dei saldi princìpi morali e delle ferme convinzioni non può tollerare, nel senso di lasciar correre, idee che ritiene pericolose per la civile convivenza, né opinioni che giudica gravemente viziate da errore, o ingannevoli. Anzi, ha il dovere morale di intervenire, come può, per contrastare quelle idee e quelle opinioni. Così, dal contrasto delle posizioni, manifestato senza infingimenti, la verità si farà strada nel dibattito pubblico.
6) La tolleranza, rettamente intesa, non è mai tolleranza di idee, ma si risolve nel dovere di rispettare la dignità umana del proprio interlocutore. Il consequenziarismo dottrinario deve sempre arrestarsi prima di offendere l’integrità fisica e morale di colui con cui discutiamo; siamo tenuti a rispettare la persona umana che è in lui. Anche quando siamo convinti che sbaglia, lasciamo che il tempo lo aiuti a trovare la sua giusta via verso la verità. In termini religiosi: bisogna condannare l’errore, ma salvare l’errante.
Quanto detto finora viene prima della politica, prima della democrazia, prima del liberalismo. Ha a che fare con la riconquista della difficile arte di fare il miglior uso possibile della propria vita, cosa molto diversa dal mero sopravvivere. Il miglior uso possibile non coincide necessariamente con il successo mondano, campo in cui, purtroppo, il "principe di questo mondo" ha sempre buone carte da giocare.
Tuttavia, se si affermassero dei valori largamente condivisi, prevalenti perché hanno sconfitto le obiezioni nel libero confronto, ne potrebbe scaturire un’egemonia politico-culturale capace di dare un preciso indirizzo alle istituzioni di governo e rappresentative, all’ordinamento giuridico, alle regole del mercato, ai contenuti formativi dell’istruzione di competenza della Scuola e dell’Università. Sapiente è colui che «ordina rettamente le cose» e sa «ben governarle» ha scritto Tommaso d’Aquino nella "Summa contra Gentiles". La politica "alta" non si appaga della gestione quotidiana di un presente sempre più frustrante e insoddisfacente, ma tende a superarlo per determinare nuova Storia.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.