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Public Policy

Il ruolo di De Gennaro

Regole e istituzioni

affidare la delega del controllo sui servizi segreti a chi li dirige non è una scelta che induce alla serenità

di Davide Giacalone - 13 maggio 2012

Gianni De Gennaro è un collaudato servitore dello Stato. Governi di diverso colore politico hanno ritenuto di potere affidargli compiti delicati. Queste premesse servono ad affrontare un problema istituzionale depurandolo da ogni aspetto personale. Spero sia possibile osservare che affidare la delega del controllo sui servizi segreti a chi li dirige non è una scelta che induce alla serenità. Attenti a non correre troppo dietro l’alibi della preparazione tecnica (supposta o reale), perché procedendo in quel modo si scardina lo stato di diritto, uno dei cui fondamenti è la separazione dei poteri. Non ci sono solo i tre canonici: legislativo, esecutivo e giudiziario, ma anche la necessaria separazione fra l’amministrazione, anche di altissimo livello, e i doveri d’indirizzo e controllo in capo alla politica. Se quei confini diventano sottili e permeabili va a finire come quando atrii e ventricoli del cuore non sono più adeguatamente separati: si schianta.

Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, delegato ai servizi segreti, non è il garante politico di quei servizi, che non esiste, non è il loro super coordinatore, ma l’uomo che, per conto del capo del governo, in modo riservato e operativo, può indirizzare il lavoro di chi li dirige, o assumere da lui informazioni che si suppone abbiano rilievo d’immediato interesse governativo. La vigilanza, per essere chiari, spetta ad una commissione parlamentare. Ebbene, se il direttore del Dis (Dipartimento delle informazioni per la sicurezza), vale a dire il capo dei servizi, assume quel ruolo di sottosegretario si crea un cortocircuito, che non riguarda il futuro (perché lascia il posto al Dis), ma il passato e il presente. Solo chi non sa di che si sta parlando può prendere la cosa sottogamba. Già non è bello avere un militare alla difesa, un prefetto agli interni e un diplomatico agli esteri, perché la coincidenza di carriere funzionariali e incarichi governativi sancisce il fallimento della politica, ma sarebbe peggio avere alla difesa il capo di stato maggiore, agli interni il capo della polizia (De Gennaro è stato anche questo) e agli esteri il segretario generale della Farnesina (che sostituisce De Gennaro al Dis, con il che ci si domanda quale sia la corrispondenza fra preparazione tecnica e assegnazione d’incarichi così immediatamente e rilevantemente operativi).

Ebbene, ai servizi accade esattamente questo: il ruolo politico finisce nella mani di chi deteneva il comando gerarchico. Può darsi che io sia affetto da ipersensibilità, ma il vedere come la cosa viene accolta e il non vendere la benché minima reazione di riflessi istituzionali, mi preoccupa. De Gennaro è stato recentemente assolto dal reato d’istigazione alla falsa testimonianza. Era stato assolto in primo grado, condannato in secondo e, quindi, del tutto liberato dall’accusa in cassazione. Resta aperto, contro di lui, il processo, sempre per i fatti di Genova (luglio 2001), fin qui fermo al primo grado, in cui è stato assolto. Segnalo la cosa da granitico garantista, sempre certo che, come dice la Costituzione e un paio di trattati internazionali, ciascuno è innocente fin quando non ci siano condanne definitive, ma la segnalo giacché certi moralismi vanno a intermittenza. Perché un impiegato statale condannato in via non definitiva può essere allontanato, mentre chi lo dirige resta al suo posto? Perché s’indica la via delle dimissioni a qualsiasi indagato (manco imputato) ricopra un incarico pubblico, mentre altrettanto non si ritiene di fare con i vertici militari e dei servizi di sicurezza? Eppure, a occhio, il capo rispetto ai subordinati e quei vertici rispetto a un parlamentare, ma anche ad un ministro, hanno maggiore capacità d’influenza sia sul corso della giustizia che sulle scelte nel frattempo da compiere. La dottrina dei due pesi e due misure è sempre riprovevole, ma è comprensibile se induce a chiudere un occhio con il piccolo ed essere maggiormente vigilanti sul grande. A parti invertite desta inquietudine. In tutti e due i casi si pone il problema delle regole, che se diventano elastiche e interpretabili con ciò stesso smettono d’esistere. A quel punto conta poco se si è proceduto per il bene o per il male, nominando meritevoli o mezze calzette, perché la regola è il riflesso di un comune sentire istituzionale. Se lo si perde il danno è grave.

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