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Al Parlamento il compito di legiferare

Referendum e tentazione autoritaria

L’effetto, politicamente molto rilevante, dell’eventuale vittoria del SI

di Livio Ghersi - 20 aprile 2009

L’ex Presidente della Camera Luciano Violante, in un articolo pubblicato dal quotidiano "Europa" (nell’edizione del 21 aprile 2009), spiega perché è orientato a votare NO ai quesiti proposti dai referendum sulla legge elettorale. In particolare, scrive Violante: «Il prevalere del SI, nella situazione attuale, porrebbe le basi per modificare in senso autoritario i caratteri del sistema politico». Penso che abbia centrato l’essenza della questione.

I referendari (il prof. Giovanni Guzzetta, Mario Segni, eccetera) sono partiti da una giustissima critica nei confronti della legge vigente che detta norme per l’elezione della Camera e del Senato, la legge 21 dicembre 2005, n. 270. Hanno ragione: si tratta di una legge elettorale pessima. Però la soluzione tecnico-giuridica che hanno individuato non soltanto non rende migliore quella legge elettorale, ma la peggiora sensibilmente. Per essere precisi, il terzo quesito referendario, quello tendente all’abrogazione delle candidature multiple, serve effettivamente allo scopo dichiarato. Qualora venisse approvato, non sarebbe più possibile che un candidato molto popolare si candidasse in tutte le circoscrizioni per raccogliere voti, determinando così, in ciascuna circoscrizione, l’elezione di altri candidati della sua lista che da soli non sarebbero in grado di raccogliere il medesimo consenso elettorale. Infatti le leggi elettorali degne di questo nome, quando vengono in considerazione collegi plurinominali (nei quali, cioè, si eleggono più candidati), stabiliscono la regola del limite massimo di tre collegi, superato il quale scatta addirittura la sanzione della nullità dell’elezione della persona che ha accettato candidature in eccesso. La logica della democrazia rappresentativa è che ci sia uno stretto legame tra eletti e realtà territoriale di riferimento; cosa che non avviene quando, con espedienti, si impone l’elezione di parlamentari che hanno scarso o nessun radicamento nel territorio in cui sono eletti. Volendo essere fino in fondo intellettualmente onesti, anche dai primi due quesiti deriverebbe una conseguenza positiva. Non si potrebbe ripetere lo sconcio che si è verificato nelle elezioni del 13-14 aprile 2008 quando, ad esempio, la lista del Movimento per l’Autonomia, che ha conseguito 410.487 voti (1,26 %), ha avuto attribuiti 8 seggi perché era coalizzata con il Popolo della Libertà, mentre non ha avuto rappresentanza la Sinistra Arcobaleno che pure aveva ottenuto 1.124.418 voti (3,084 %). Infatti la legge n. 270/2005 prevede che le liste dei partiti che fanno parte delle coalizioni più votate ottengano rappresentanza se hanno una cifra elettorale nazionale almeno pari al 2 % del totale dei voti validi espressi, soglia che può essere ancora più bassa nel caso del "miglior perdente" (appunto, la lista del Movimento per l’Autonomia); invece, per le liste che si presentano autonomamente, cioè al di fuori delle coalizioni più votate, si applica rigidamente la soglia del 4 % per l’accesso alla rappresentanza. Disciplina che, a mio avviso (ed anche a giudizio di altri, più autorevoli), viola il principio stabilito dall’articolo 48, secondo comma, della Costituzione, secondo cui tutti i voti devono avere peso eguale. L’unica condizione perché una soglia di sbarramento sia costituzionalmente legittima e politicamente accettabile è che funzioni in modo uguale per tutte le liste. La legge n. 270/2005 prevede soglie di sbarramento diversificate, cosicché le liste non sono poste tutte sullo stesso piano e la partita, in partenza, è falsata.
Dall’approvazione dei primi due quesiti referendari discenderebbe la conseguenza che verrebbero comunque escluse dalla rappresentanza le liste che non ottengano almeno il 4 % dei voti su base nazionale nelle elezioni della Camera, ed almeno l’8 % dei voti su base regionale nelle elezioni del Senato. L’8 % è una soglia eccessivamente elevata, ma almeno così tutte le liste verrebbero riportate ad una condizione di eguaglianza di trattamento.

Tuttavia, i primi due quesiti referendari sarebbero ininfluenti rispetto a quello che è l’inconveniente più grave della disciplina recata dalla legge n. 270/2005: il fatto che i parlamentari siano tutti eletti sulla base di liste bloccate, cioè secondo l’ordine di presentazione nelle liste. Criterio che fa sì che oggi siano le segreterie dei partiti, non il corpo elettorale, a decidere da chi sarà composto il Parlamento.

E’ vero che il voto di preferenza individuale, quando espresso in circoscrizioni territorialmente molto ampie (come nel caso delle elezioni europee), rende più costose le campagne elettorali e, quindi, può fare emergere non i candidati più virtuosi, ma semplicemente quelli che dispongono di maggiori risorse finanziarie, magari procurate in modo illecito.

Questa obiezione contro il voto di preferenza si può facilmente smontare, prefigurando una diversa legge elettorale che davvero potrebbe raccogliere il favore della stragrande maggioranza del Paese. Basterebbe prevedere che almeno 480 deputati vengano eletti in altrettanti collegi uninominali (quindi, ciascuno con un bacino di popolazione di circa 125.000 abitanti, come media).

Fare precedere le elezioni in ciascun collegio da un turno obbligatorio di primarie, disciplinato per legge, realmente aperto alla partecipazione di candidati indipendenti, stabilendo la regola che possono concorrere all’elezione per il seggio nel collegio soltanto i due candidati risultati più votati nel turno di primarie, ed eventualmente altri candidati che, nello stesso turno, abbiano conseguito almeno il 12 % del totale dei voti validi espressi.

In questo modo verrebbe ripristinato il requisito della rappresentatività dei parlamentari, garantito da un legame effettivo con la realtà territoriale di riferimento. Nel contempo, il meccanismo del collegio uninominale, in cui chi vince prende tutto, è la via maestra per favorire il formarsi di coalizione politiche.
Considerato che, secondo la Costituzione vigente, dodici deputati devono essere eletti nella Circoscrizione Estero, i restanti 138 deputati (cioè circa il 22 % del totale dei membri della Camera) potrebbero essere scelti con un secondo voto, da esprimere per una lista, fra quelle concorrenti in grandi circoscrizioni, corrispondenti ad aree territoriali omogenee del Paese, individuate in numero non inferiore ad otto e non superiore a tredici. Non dovrebbe essere previsto alcun meccanismo di "scorporo" del voto espresso nei collegi, in modo da non ripetere gli inconvenienti riscontrati quando era vigente la precedente legge elettorale (4 agosto 1993, n. 277, legata al nome del ministro Mattarella).

Per evitare il fenomeno della frammentazione, in ciascuna circoscrizione sarebbero escluse dalla rappresentanza le liste che non superano la percentuale del 5 % dei voti validi espressi (quindi, soglia di sbarramento circoscrizionale, non nazionale). I seggi verrebbero attribuiti in proporzione ai voti conseguiti dalle liste che superano la soglia. In questo modo sarebbero "fotografati" i reali rapporti di forza fra i partiti, secondo il consenso che ciascuno è in grado di raccogliere, e nel contempo sarebbero salvaguardati i partiti effettivamente radicati in certe zone geografiche. Nel limite di seggi spettanti a ciascuna lista, i candidati sarebbero proclamati eletti secondo l’ordine di presentazione nella lista.

La nuova legge elettorale non dovrebbe prevedere alcun premio di maggioranza. Infatti, né la legge elettorale inglese, né quella tedesca, prevedono alcuna maggioranza numerica garantita. Il premio di maggioranza è in contraddizione con la Forma di governo parlamentare (ancora prevista dalla nostra Costituzione): una maggioranza parlamentare precostituita "per legge" deve fare un’unica cosa: votare disciplinatamente i provvedimenti, di volta in volta, proposti dal Governo. La funzione del parlamentare si risolve nello schiacciare il bottone giusto, al momento delle votazioni.

Come si vede, alla luce dell’esperienza degli ultimi sedici anni, non è poi tanto difficile concepire una buona legge elettorale, ma questo è un compito che non i referendari, ma soltanto il Parlamento può assolvere. Le soluzioni individuate dai referendari non restituirebbero agli elettori la possibilità di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento e non servirebbero a riequilibrare il ruolo del Parlamento rispetto a quello del Governo.

L’effetto, politicamente molto rilevante, dell’eventuale vittoria del SI nel referendum sarebbe quello di garantire una maggioranza numerica nella Camera dei deputati, quantificata in 340 seggi, non alla coalizione più votata — come avvenuto nelle elezioni del 2006 e del 2008 — ma alla «singola lista che ha conseguito il maggior numero di voti».

Eliminando ogni riferimento alle coalizioni, i sostenitori della via referendaria vorrebbero costringere tutte le forze politiche, a Destra e a Sinistra, a ridursi a due soli partiti fra loro alternativi, pervenendo così ad un sistema bipartitico imposto "per legge". Uno studioso il cui giudizio è realmente autorevole per meriti scientifici, Giovanni Sartori, ha scritto, con felice sintesi giornalistica: «noi stiamo fabbricando "poli" sempre più eterogenei al loro interno e blindati al loro esterno».

La logica dei referendari è sempre quella della costrizione: dai due "poli" blindati, ma ancora composti da più liste fra loro coalizzate, si dovrebbe passare a due grandi contenitori elettorali che pure nella forma, cioè nelle modalità di presentazione, non lasciano spazio ad altro. O si sta di qua, o si sta di là. La politica, giustamente, si ribella a questi artifizi di ingegneria istituzionale, concepibili unicamente da chi ha un senso storico pari a zero.

Solo due partiti avrebbero interesse ad una vittoria del SI: il Popolo della Libertà ed il Partito democratico. Berlusconi avrebbe ancora più potere: oggi è sicuro di avere la maggioranza relativa, anche senza l’appoggio della Lega Nord. Quindi, il premio di maggioranza sarebbe comunque suo. Il Partito democratico si accontenterebbe di avere garantito il ruolo di secondo partito, in modo da stipulare una sorta di assicurazione per il proprio ceto politico. Ogni prospettiva di concorrenza, a Sinistra, o al Centro, verrebbe resa impossibile ed al Partito democratico resterebbe comunque il monopolio dell’opposizione nelle istituzioni. Non è poco, per chi si accontenta.

Se volessi inseguire la cronaca dovrei parlare di date. Ma in questo caso basterebbe ricordare che la legge che disciplina il referendum abrogativo (legge 25 maggio 1970, n. 352) stabilisce all’articolo 34 che non si possono tenere referendum in prossimità di elezioni politiche, cosicché, in caso di scioglimento anticipato delle Camere, slitta di un anno l’effettuazione di referendum già indetti.

Di conseguenza, molte delle argomentazioni svolte dal ministro Calderoli e da altri esponenti della Lega Nord sul fatto che l’accorpamento con elezioni politiche generali, quali sono quelle per il rinnovo del Parlamento, altererebbe la natura giuridica del referendum abrogativo, aggirando il requisito di dover raggiungere un quorum di votanti, a mio avviso sono fondate.

In occasione delle elezioni europee del 18 giugno 1989 si tenne, contemporaneamente alle elezioni, non un referendum abrogativo (cioè il referendum contemplato dall’articolo 75 della Costituzione, che qui interessa), ma un referendum di altra natura, per sapere se il Popolo italiano approvava il processo di «trasformazione delle Comunità Europee in una effettiva Unione». Tutto il resto è tattica politica, convenienza, strumentalizzazione. Parlare di costi, invece che del merito, è un trucco fin troppo scoperto. Palermo, 21 aprile 2009

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