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Tra Milano e Torino, forza e volontà d’unione

Quello strano balletto a quattro

Ma o si torna alla moral suasion, o si impone una massimizzazione di profitto per tutti

di Enrico Cisnetto - 24 marzo 2006

C’è chi ha confuso il passaggio del timone della Banca d’Italia da Fazio a Draghi come la resa incondizionata del nostro sistema bancario a quello estero. E si sente autorizzato a questa valutazione dal sì all’opa di Bnp su Bnl e dall’ormai definitiva conquista di Antonveneta da parte di Abn-Amro, tanto da indurre gli olandesi a ipotizzare il delisting del titolo padovano e persino il cambio delle insegne degli sportelli. Si tratta di un errore, le cose non stanno – o comunque non dovrebbero stare –così. Un conto è invitare gli istituti, specie i più grandi, a riprendere il cammino della convergenza, come ha fatto il nuovo Governatore, altra cosa è chiudere gli occhi di fronte ad operazioni che possono fortemente spostare gli equilibri verso gruppi internazionali. Il caso più emblematico è sicuramente l’evocato matrimonio tra Capitalia e Banca Intesa.
Ma prima è bene fotografare la realtà a bocce ferme. Ebbene, dei cinque maggiori gruppi bancari italiani, due hanno nell’azionariato una forte presenza estera (Intesa e Sanpaolo), uno ha una platea di soci molto variegata in cui è presente anche una componente estera ma in probabile uscita (Capitalia), uno è in mano alla locale fondazione (Mps) e l’altro (Unicredito) è l’unico ad aver scelto la strada della crescita varcando i confini. Ora, considerando Profumo fuori dal gioco nazionale, almeno per ora, ne deriva che le altre o scelgono di imitare Unicredito – cosa non facile, ma assai opportuna – oppure sono costrette a ballare tra loro la quadriglia. Diciamo, allora, che la scelta di cercare dei partner all’estero ha senso che la sperimentino le due a maggiore capitalizzazione, Intesa che vale 35 miliardi e Sanpaolo che arriva quasi a 25 miliardi. Cioè, guarda caso, le due banche che hanno nei francesi di Crédit Agricole e, in misura minore, negli spagnoli del Santader i soci esteri più grandi e arrembanti. Per la verità a Torino ci hanno provato lanciando l’ipotesi Dexia, ma Enrico Salza è stato lasciato solo sia da Bankitalia che dal governo e l’aggancio non è riuscito. Intesa, invece, che si sappia, non ci ha nemmeno provato, probabilmente perchè i soci transalpini non gradirebbero. Peccato, perchè se a Torino e a Milano trovassero la forza e la determinazione di andare in quella direzione, dopo non rimarrebbe che unire le due a minor capitalizzazione (Capitalia quota 18 miliardi, Mps poco meno di 12) e il gioco sarebbe fatto. In queste condizioni, invece, è finito col partire uno strano balletto a quattro, la cui unica logica rischia di essere quella che il grande mangia il piccolo. Così il Sanpaolo si è messo sulla via di Siena, e Intesa su quella di Roma. Ma mentre nel primo caso la presenza della fondazione Paschi assicurerebbe un azionariato post fusione decisamente italiano, nonostante che il rapporto in termini di valore borsistico sia di uno a due, nel secondo è del tutto evidente che il fronte frastagliato dei soci di Capitalia metterebbe in condizione il Crédit Agricole di farla da padrone, al di là del rapporto di 1,94 che misura le due banche in predicato di unirsi. Si dirà: ma finora il carisma di Giovanni Bazoli ha consentito di creare nel patto di sindacato di Intesa un buon equilibrio. Vero, fin tanto che c’era Fazio. Ma quando Draghi, giustamente, impone un mix tra esigenze di sistema e regole di mercato, non è un caso che da Parigi sia partito subito un altolà al vertice di Intesa, che solo l’abilità del presidente ha poi ricondotto su binari formalmente più accettabili, ma che in pratica rimane un vero e proprio diritto di veto. Ed è chiaro che se CapIntesa ha da essere, la banca verde francese vuole tenere saldo in mano il bastone del comando. Si potrebbe dire: pazienza per gli equilibri del sistema, se a guadagnarci sono gli azionisti grandi e piccoli di entrambe le banche. Sì, anche se non si vede bene perchè rassegnarsi a considerare le due cose come antitetiche. Tuttavia, anche entrando in questo ordine di idee, diventa incomprensibile la lettura che si dice abbia dato il vertice di Intesa (ma forse non Bazoli) della mossa di Matteo Arpe di comprare il 2% e rotti della banca milanese. Se si evoca il mercato, come si fa a condannare un’operazione di mercato come quella? Qualcuno ha persino parlato di “uso improprio” di uno strumento di trasparenza: e perchè mai, visto che così se Intesa vuole Capitalia è costretta a fare un’offerta cash? Forse che i cantori delle virtù del mercato preferirebbero una pasticciata “carta contro carta”, in nome del concetto buonista (e quindi falso) dell’opa amichevole?
Peraltro, io non credo ai malevoli che vedono qualcosa di più di una semplice coincidenza tra la sospensione di Cesare Geronzi voluta dal tribunale di Parma e i contatti avviati da emissari di Intesa con alcuni degli azionisti di Capitalia. Né credo al tanto sbandierato coté politico dell’operazione, dato che nel caso sarebbe stato conveniente per Intesa attendere l’esito delle elezioni che da quelle parti si pensa e spera siano favorevoli a Romano Prodi.
Detto tutto questo, delle due l’una: o la banca centrale torna ad un ruolo di moral suasion – con tutti i pro e i contro della cosa – e allora logica vuole che Torino e Milano siano spinte a internazionalizzarsi, oppure se si lascia l’iniziativa ai singoli banchieri, è necessario che si stabilisca la regola che occorre massimizzare il profitto per tutti. Il caso Comit insegna.

Pubblicato su Il Foglio del 24 marzo 2006

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