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Sprechi e statalismo. La partita di Alemanno

Quello di Acea è un pasticcio.

Né poteva essere diversamente, in un Paese in cui si convocano i referendum contro il mercato e le normative europee.

di Davide Giacalone - 04 maggio 2012

Quello di Acea è un pasticcio. Né poteva essere diversamente, in un Paese in cui si convocano i referendum contro il mercato e le normative europee. In cui le forze politiche se la fanno sotto sicché, da destra come da sinistra, quelli che avevano sostenuto il sano processo di privatizzazione si rimpiattano nel silenzio. Ed è un pasticcio ridicolo, perché nel mentre non passa giorno senza che si ripeta quanto la politica sia ributtante e da tenere lontana dal governo, poi prendi temi vitali, come l’acqua, e sembra che l’influenza della politica e la spartizione dei consigli d’amministrazione siano l’unico modo per salvare l’umanità. E’ il dagherrotipo d’un popolo allo sbando. L’ultima pietra dello scandalo è la decisione, presa dalla giunta capitolina, di mettere in vendita il 21% dell’Acea. La quale azienda è il classico mostro all’italiana: municipalizzata, ma quotata in Borsa; posseduta al 51% dal comune, ma con i privati in consiglio d’amministrazione; a vocazione pubblica, ma cui si chiedono profitti. Una animale misto, come altri ce ne sono. Dei mostri, appunto. Vendendo il 21% il comune resterebbe l’azionista di maggioranza, quindi non cambierebbe la natura mista e snaturata del tutto. Contro la vendita si muove tutta la sinistra romana, invocando le ragioni dei cittadini contro quelle del capitale. Una specie di regressione allo stato primordiale, con annesso rinnegamento delle norme proposte dai governi di centro sinistra. Per capire fin dove giunge l’assurdità basterà porre mente a pochi elementi. E’ vero, il mercato non è oggi uno splendore e le azioni Acea valgono un terzo di quando raggiunsero i massimi. Solo che li raggiunsero prima dello sciagurato referendum, laddove è evidente che se una società deve per forza restare pubblica, e dove non cerchi il profitto taglieggiando i cittadini, l’assenza di contendibilità ne abbatte il valore. Una cosa era l’Acea dove entravano i francesi e dove investiva Caltagirone, entrambe con l’idea di dominare un mercato assai interessante, altra quella di una municipalizzata destinata a subire le idee e le nebbie delle maggioranze politiche municipali. Che cosa vuole, la sinistra, che si venda facendo prima salire le azioni? Il sistema c’è: raddoppiamo la bolletta di acqua e luce. Forse non è la strada migliore. O vuole che l’acqua sia ora e sempre pubblica, con ciò mantenendo in mani politiche anche l’energia elettrica? In questo caso non c’è ragione che temano Beppe Grillo, perché sono già loro degli ortotteri. O pensano che si debbano separare acqua ed energia? In questo caso facendo scendere il valore. Insomma: oltre ad appiccicare manifesti, pensano? Il punto debole della giunta Alemanno è un altro: immaginare la vendita solo per far cassa, senza una strategia che, del resto, è resa monca proprio dal referendum. Intanto c’è la partita dell’illuminazione pubblica, che non essendo stata travolta dal referendum ancora dipende dalla direttiva europea e, quindi, deve essere sottoposta a gara se l’azienda che la gestisce è di proprietà municipale. Ci manca solo il capolavoro di lasciare l’Acea così com’è, salvo farle perdere un pezzo alla volta, a casaccio e per dabbenaggine. La scena è tanto più assurda perché mentre si indica al governo nazionale la via delle vendite per abbattere il debito pubblico, in modo da evitare la crescente tassazione, a Roma si pretende l’opposto: niente vendita, ma crescente bollettazione. E questa sarebbe la politica popolare, così come può essere concepita da un personale politico i cui bilanci familiari neanche s’accorgono di quanto costa l’acqua. Altro che guasti della politica, quelli che vediamo sono i disastri della non-politica.

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