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Identikit dei leghisti

Quelli della Lega

L’analisi del partito di Bossi, all’indomani del trionfo elettorale, tra follie e pragmatismo

di Davide Giacalone - 16 aprile 2008

Da guardone della politica (più raffinatamente definibile osservatore o commentatore) posso mettere qualche trofeo nel personale ed ininfluente scaffale delle previsioni. Riguardo alla Lega no, non mi riconosco meriti. Diciamo pure che non l’ho capita, se non quando ho cominciato a battere le vie e le piazze del nord non metropolitano, ospite di circoli culturali dove incontro amministratori giovani, a modo, preparati, che poi mi dicono: io sono leghista. Non ero agevolato, nel capire, intanto perché sono meridionale e, come se non basti, figlio del meridionalismo democratico. Poi perché cerco d’essere onesto, di ascoltare e farmi delle opinioni sulla base di quel che sento, e non di pregiudizi. E quel che sentivo, da molti leghisti, non era commendevole.

Le urne appena riposte mi dicono che le cose stanno in modo assai diverso. La politica italiana si scanna per potere esibirsi in televisione, considerata la lanterna magica capace di moltiplicare i voti. Nelle ultime settimane la Santanché e Bertinotti erano su tutti i canali, e sono rimasti fuori dal Parlamento. La Lega c’è poco, in televisione, e quando c’è non fa figure esaltanti. Di Bossi si può dire molto, ma non che l’“immagine” lo premi particolarmente. Hanno preso voti a man bassa. Le polemiche sui giornali ed i giornalisti amici non si contano, come se le gazzette formassero coscienze ed aggregassero voti. I leghisti non hanno giornalisti amici, ed ogni calderolata o borghesata finiscono sulle prime pagine per giorni, ad indicarne l’indicibile zoticume. Il trionfo elettorale segnala l’inutilità di quelle campagne, e forse anche dei fogli su cui erano scritte. Guardate i gruppi parlamentari, ed ancor più guardate la classe dirigente impegnata nelle amministrazioni locali: i leghisti hanno la media dei più giovani e dei più preparati.

La Lega ha fatto politica sul serio, a contatto con la realtà, parlando alle persone e non alla “gente”, mettendo le mani su poteri limitati e concreti, anziché disputarne di enormi ed immaginifici. Dire che sono di protesta i voti che raccoglie credo significhi non avere capito un accidente, perché quelli sono voti politici, nati da identità, coltivati per venti anni. Ma veniamo alle idee ed ai valori. Vogliono distruggere lo Stato unitario, quelli della Lega? In effetti ne hanno dette non poche di cretinate secessioniste. Ma quando si è trattato di mettere mano alle riforme costituzionali lo scassamento è arrivato dalla riforma del titolo quinto, voluto e votato dalla sinistra, mentre la Lega portò il suo consenso ad una successiva modifica costituzionale che andava in direzione opposta, ripristinando il concetto d’interesse nazionale e considerandolo prevalente in settori decisivi, come i trasporti, l’energia o l’istruzione.

Se si separano le sparate da comizio dai comportamenti effettivi e si valutano questi ultimi, i nemici dell’unità d’Italia non sono i leghisti, ma i loro tanto severi critici. Sono razzisti, quelli della Lega? Più di un gesto lascerebbe intenderlo, ma se poi si va a leggere la norma che regola l’immigrazione, e che porta il nome di un leader della destra e del capo leghista, non se ne scorge traccia, e lungi dal volere buttare fuori gli immigrati che ci sono si cerca di regolare l’afflusso di quelli che arriveranno. Su questo tema la Lega si muove tenendo presenti due binari. Da una parte ci sono i bisogni produttivi della grande parte del tessuto economico, composto da una miriade di piccole aziende che senza l’immigrazione chiudono. Dall’altra c’è che gli immigrati, indispensabili, vanno poi a risiedere in quartieri periferici e poveri, dove gli italiani residenti, anch’essi periferici e poveri, ne traggono una perdita di valore economico ed una perdita di considerazione sociale. Ecco perché fette di voto “proletario” finiscono alla Lega. E non è che facendo tacere i leghisti si risolva alcunché, anzi, semmai si dovrebbe ascoltarli con meno pregiudizi.

Certo, quando sento che un loro parlamentare disinfetta i sedili dei treni dove s’erano seduti i negri, oscillo fra il disgusto e l’ironia, propendendo per la seconda. Ma poi m’accorgo che i sedili dei treni dovrebbero essere disinfettati anche in prima classe, se solo sali su un vagone che viaggia fuori dalle due o tre arterie principali. Se prendi un treno locale, affollato di pendolari, ti accorgi che la disinfestazione dovrebbe essere totale, perché sovraffollamento ed inesistenza d’impianti per l’aerazione sono un miscuglio infernale. E se devi andare al cesso t’accorgi che la disinfestazione sarebbe inutile, perché l’unico rimedio è appiccare il fuoco. Ed allora ti torna alla mente quel parlamentare e diventi indulgente, perché disinfetteresti il sedile dove anche lui s’è seduto. Il linguaggio della Lega è fastidioso, ma anche ingannevole. Rifiutandone le cacofonie se ne cancellano le verità, finendo con il raffigurarsi una realtà irreale. E, ad essere onesti, quando ci capita di avere percorso la trafila per contestare una multa ingiusta, che del tutto illegittimamente ci viene inserita in una cartella esattoriale, le cose che un agitatore leghista dice dello Stato e della burocrazia pubblica, sono raffinatezze per palati fini, rispetto a quelle che ci passano per la testa. Ecco, loro le dicono. E le dicono perché non considerano immutabile la realtà, non la vivono come sia una disgrazia naturale, ma considerano possibile la “liberazione”. Vanno presi sul serio.

Tranquillizzo quei quattro cafoni che mi sono rimasti amici e parenti: non ho votato per la Lega e non la voterò. Ma ho come il sospetto che anche dalle nostre parti, in terronia, non sarebbe poi così male sopire la radice antica e vitale della ragionevolezza e proporsi, del tutto follemente, di cambiare la realtà. E non sarebbe poi così male avere politici eletti non per i milioni spesi in pubblicità stampata e trasmessa, ma per le ore passate nei bar. C’è molto pragmatismo, nelle follie della Lega. C’è troppa arrendevolezza e inutilità, nella pretesa ragionevolezza della quasi totalità della classe dirigente meridionale.

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