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Public Policy

Standard & Poor’s boccia l'Italia

Quel che ci declassa

Pressione fiscale opprimente su produzione e lavoro e enorme debito pubblico.

di Davide Giacalone - 11 luglio 2013

L’Unione europea ci elogia e le agenzie di rating ci declassano. La Commissione europea chiude la procedura d’infrazione mentre Standard & Poor’s apre il fuoco sui nostri conti. Il nostro governo reclama di aver fatto i compiti a casa, ma c’è chi ci boccia e retrocede di classe. A ben vedere è questo l’elemento sul quale riflettere. Anche perché dopo il 30 di luglio, quando la cassazione avrà spento il processo a Silvio Berlusconi, questi altri focolai resteranno pronti a divampare, promettendo sfaceli autunnali.

Come mai i giudizi sono così diversi e distanti? Perché le istituzioni dell’Unione ragionano sul rispetto dei parametri e del patto di stabilità, valutando ragionieristicamente i dati del bilancio pubblico, mentre chi si occupa di economia, quindi anche di sostenibilità del debito pubblico, considera che non solo si conferma la recessione, ma gli strumenti utilizzati per ottenere la promozione nell’altro corso la aggravano. Per sostenere strutturalmente il nostro debito avremmo bisogno di crescere in media del 3%, mentre ancora scivoliamo indietro e l’anno prossimo risaliamo di un capello. E non è vero, come qualcuno ha scritto, che la retrocessione a tripla B, quindi a un passo dai titoli spazzatura, è giunta inaspettata, perché nelle previsioni di qualche mese addietro era già annunciata. E, giusto per non farci mancare nulla, le previsioni per il prossimo futuro restano negative. Ora entriamo nel merito di due questioni: a. le ragioni della bocciatura; b. la sua fondatezza.

Non è affatto vero che S&P (come altre agenzie) degrada l’Italia perché spaventata dall’ipotesi che si cancelli l’aumento dell’Iva o si esoneri dal pagamento dell’Imu sulla prima casa. E’ una superba cavolata. Semmai il ragionamento va capovolto: posto che per riprendersi l’Italia ha bisogno di porre sotto controllo la spesa pubblica corrente, che scivola via senza che nessuno intervenga, e di abbassare la pressione fiscale sulla produzione e sul lavoro, fa un certo effetto che si discuta per settimane, con relativo accapigliamento, di due questioni relativamente marginali, per la loro reale dimensione. Se non si riesce a cancellare il meno come si può sperare che si riduca il più? E siccome la pressione fiscale è intollerabilmente alta per i produttori di ricchezza, non può che apparire orribile che per coprire il rinvio di un punto d’Iva si chiedano “anticipazioni” che vanno da 100 al 110% delle tasse 2013.

A questo si aggiunga che è considerata malata la nostra legislazione sul lavoro, perché costringe a rigidità eccessiva nel momento in cui servirebbe più elasticità. Sicché fa un certo effetto leggere che si chiede di potere derogare a quelle leggi al fine di ultimare i lavori per l’Expo prima del suo inizio (giacché finirli dopo è una burla): se le leggi sono sbagliate si cambiano, non si derogano. Osservando tale spettacolo è inevitabile che il giudizio si faccia severo.

Questo giustifica il considerare i titoli del nostro debito pubblico quasi fossero spazzatura? No. Ma è inutile prendersela ora con le agenzie di rating, come fa uno Stefano Fassina che oggi le giudica “culturalmente inadeguate”, mentre ieri erano considerate inappellabili giudici dei nostri governi. Il fatto è che il nostro debito pubblico è sicuro, la nostra forza patrimoniale lo garantisce ampiamente, ma continuiamo a impiccarci nell’inerzia, evitando di fare il necessario. Vale a dire abbattere il debito con dismissioni patrimoniali. Se non vogliamo mettere la patrimoniale sui cittadini (che sarebbe il colpo di grazia), dobbiamo metterla sullo Stato. La propensione al risparmio degli italiani è ricresciuta, segno che le famiglie hanno paura e si comportano con prudenza, ma non è scesa la propensione statale allo scialacquio. Siamo fermi, invece, continuando a compensare qualche limatura fiscale con aggravi fiscali. Un gioco demenziale.

Ergo, a dispetto della solidità della nostra economia, a dispetto di un rigore finanziario che non ha pari nell’Ue, a dispetto di un avanzo primario sconosciuto agli altri, siamo riusciti a sprecare il tempo conquistato dal cordone sanitario predisposto dalla Banca centrale europea, siamo riusciti a non fare le sole cose necessarie (a parte la riforma delle pensioni), ci siamo dilettati a far comunicati bellici sulle frattaglie e ci accingiamo ad affrontare l’autunno con un fisco demoniaco, una burocrazia sadica e rigidità di mercato incompatibili con la necessità di cogliere il refolo della ripresa. Tutto sommato si dovrà ringraziare S&P, che noi descrivevamo come inaffidabile e in conflitto d’interessi quando gli altri s’inginocchiavano al suo cospetto e accendevano lumini perché distruggesse i nostri governi, si dovrà ringraziarla per avere dimostrato che ci si può azzeccare sbagliando. Ma solo perché gli errori degli altri sono più grossi.

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