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Le indiscrezioni comparse su La Stampa

Quei conti di D’Alema in Brasile

Queste storie le abbiamo raccontate, e adesso rispuntano come fossero nuove nuove

di Davide Giacalone - 07 giugno 2007

Massimo D’Alema ha avuto, od ha, conti segreti all’estero, in Sud America, alimentati con quattrini che derivano dagli affari brasiliani di Telecom Italia? E’ quel che emerge da alcune carte giudiziarie, che La Stampa ha pubblicato con grande evidenza riportando voci di spioni. Io non lo so, ed a naso non ci credo. Anzi, intravedo il trucco: quando i conti non saranno trovati si dirà che era tutto falso. Ed invece era quasi tutto vero, come noi abbiamo scritto e documentato con largo anticipo. Ma in un Paese che smarrisce la coscienza civile, dove anche l’opposizione si guarda bene dall’affondare il colpo, tutto finisce sempre sul tavolaccio penale e, a quel punto, il diritto e la cultura c’impongono di considerare innocenti quanti non siano già stati condannati. Anche se l’osservazione della realtà c’induce a sospettare del fatto che taluni non vengono mai nemmeno indagati. Fateci caso: accarezzi sulla testa un bimbo e rischi l’avviso di garanzia per pedofilia. C’è chi ha visto e male interpretato, ti dicono, è un atto dovuto. Mentre in altri casi, quando i fatti sono stati raccontati e riraccontati, quando ogni tanto, come capita adesso, si riscopre quel che già si sapeva, a certuni l’avviso di garanzia non arriva mai, non è mai un atto dovuto. La giustizia sarà cieca, ma vorrei si sapesse chi è il cane guida.

E veniamo ai soldoni spariti in Brasile, partendo dal ruolo della Quercia. Dalle carte giudiziarie emerge oggi l’esistenza di un dossier “Oak” coltivato, a quel che apprendo, dagli spioni della Telecom e da uomini dei servizi segreti, i quali avevano intercettato un segretissimo rapporto della Kroll (agenzia internazionale d’investigazioni private) che al nome “Oak” collegavano fondi neri destinati ai democratici di sinistra. Bella storia, ma noi l’abbiamo pubblicata da anni. Difatti, quando D’Alema sponsorizzò la scalata a Telecom dei “capitani coraggiosi”, quando mise Palazzo Chigi a disposizione di Colaninno, cosa che oggi lo imbarazza al punto da negare l’evidenza ed invertire le date per giustificarsi, la cordata degli scalatori non era affatto composta da italiani industriosi e risparmiatori, come volevano far credere, ma da società lussemburghesi a loro volta possedute da paradisi fiscali e dell’opacità. Fra i fondi che aiutavano la scalata c’era l’Oak Found, letteralmente il “Fondo Quercia”, il che conferma quel che Guido Rossi andava strillando: gli affaristi di palazzo Chigi non conoscono l’inglese. Avessero avuto confidenza con l’idioma, ed essendo gli stessi i dirigenti del partito della Quercia, avrebbero preteso denominazioni diverse. Chiederete voi: ma chi erano i proprietari di Oak Found? Non lo sa nessuno, perché nessuno ha mai saputo chi realmente scalò Telecom Italia. Nessuno sa chi l’ha venduta. Mentre si sa che a menare la danza furono gli stessi che poi riconobbero a Consorte e Sacchetti un compenso miliardario, versato in segreto ed all’estero, per i servizi resi alla proprietà di Telecom Italia. I due, del tutto casualmente, militano nel partito della Quercia.

D’Alema non è neanche indagato. Se anche lo fosse difenderei la sua presunzione d’innocenza, e difendo oggi il suo buon nome dal sospetto di avere fondi segreti derivanti da reati. D’Alema non fu capace di eguale civiltà, ma questo è un problema suo. Però egli porta tutta intera la responsabilità politica di avere consegnato Telecom in mano a chi la fece a pezzi, distruggendo un patrimonio pubblico e disperdendo ricchezza all’estero. Alla quale torno. In Brasile quella gestione di Telecom fu protagonista d’investimenti totalmente dissennati, per centinaia di milioni di dollari, che non solo non produssero niente, ma furono poi azzerati in bilancio. Si era comperato il nulla. Possibile che fossero tutti scemi? Dove finirono quei quattrini? Documentammo alcune ipotesi, che portavano ancora ai paradisi fiscali. Va a finire che fra un paio d’anni, con comodo, leggeremo che qualcuno sta indagando. Ma si è anche saputo che in quel Paese Telecom è riuscita a pagare in contanti, con un camioncino della sicurezza bancaria imbottito di banconote, un proprio consulente. Vi pare normale? Magari quel tipo voleva fare come Paperon de’ Paperoni, e tuffarsi in una stanza colma di talleri, ma non è affatto sensato e normale che Telecom lo assecondi pagandolo come prima dell’invenzione delle lettere di credito ed inducendo il sospetto che la destinazione finale sia un’altra. A questo s’aggiunga che, come raccontammo, quel signore non si sa nemmeno se fosse un consulente di Telecom od altro, visto che l’ufficio legale ne negava anche l’esistenza, mentre l’ufficio pagamenti lo copriva di denari. Stai a vedere che un giorno qualcuno si metterà ad indagare anche su questo. E che dire dell’intreccio, in Brasile, fra Telecom Italia, Parmalat e Cirio, che si contesero la stessa persona, lo stesso amministratore, e visto il capolavoro combinato nelle ultime due c’è da domandarsi se Telecom non ha fatto la stessa fine solo perché aveva spalle finanziarie più forti. Che pensate, su questo s’indagherà?

Tutte queste storie le abbiamo qui raccontate, e sorridiamo amaramente quando le vediamo rispuntare come fossero nuove nuove. Certo, la lentezza della giustizia è drammatica, e certo la pubblicazione degli atti giudiziari sarà una nuova ondata di palta. Ma il dramma vero è l’assenza di anticorpi, di reazione civile. Al fondo di questa storia c’è la malaprivatizzazione di Telecom ed il servizio reso dalla politica ad interessi privati. Quella era la buona ragione per suscitare ribellione ed opposizione politica, quello era il tema di una grande battaglia. Se tutto si trasferisce sempre nelle aule dei tribunali, vuol dire che c’è poca schiena dritta e poca lucidità mentale in politica o interessi inconfessabili, così come vuol dire che la realtà dei fatti si accerterà fra molti anni, e probabilmente mai. Pubblicato da Libero di giovedì 7 giugno

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