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Vertice europeo sulla disoccupazione giovanile

Quante bugie sui senza lavoro

I vertici europei, nonché le politiche governative, dovrebbero avere il coraggio di affermare che l’interesse dei giovani, quindi dei non garantiti, equivale all'interesse generale.

di Davide Giacalone - 02 luglio 2013

Domani vertice europeo a Berlino, dedicato alla disoccupazione giovanile. Temo l’ondata di parole, nella certezza che non si crea un solo posto di lavoro affermando che quel problema è una “priorità”, o che si posiziona “al primo posto” in quale che sia agenda. La disoccupazione giovanile è una realtà statistica che è sciocco supporre di cambiare limando i numeri. A generarla ci sono aspetti culturali e politici.

Non vorrei traumatizzare le orecchie del politicamente corretto, ma il dramma sociale non è quello dei giovani che non trovano lavoro, bensì quello dei loro padri che lo perdono. O, meglio, sono entrambe dei drammi, ma il secondo decisamente più grave. Una cosa è non riuscire ancora a costruirsi una vita propria, altra il tornare a casa senza soldi e lavoro, dovendo guardare negli occhi i propri figli. Spiegare a queste persone che si devono varare decreti per favorire l’ingresso dei giovani, senza nulla aggiungere sulla loro fuoriuscita significa non avere la più lontana idea di come sia fatta la realtà. Le politiche dei governi, quindi, devono indirizzarsi a creare le condizioni affinché ci sia lavoro, vale a dire condizioni di mercato che consentano alle aziende di crescere e assumere nella quantità e qualità necessarie. Tutto quello che sta fuori da questo è mera illusione, perché l’intero continente europeo non può permettersi di finanziare a debito la falsa occupazione.

Posto ciò, la domanda è: esiste uno specifico della disoccupazione giovanile? Dal punto di vista sociale, come detto, è meno rilevante dello specifico senile. Ma dal punto di vista del mercato sì, esistono specificità che vanno affrontate come tali. Per farlo occorrono riforme drastiche, non discorsucci consolatori. Essere giovani significa essere nell’età più vicina alla fase formativa. Quindi, punto numero uno, si deve avere un sistema dell’istruzione indirizzato a collaborare con quello della produzione. Da noi sono largamente scollati. Ci servono non solo scuole professionali, ma università strettamente integrate con la produzione. Ne abbiamo, invece, che si vantano di non occuparsene. Ci servono esperienze di lavoro istruttivo, per tutti, non solo per i fresatori.

La seconda specificità consiste nel fatto che chi è già dentro al mondo del lavoro costruisce anche una rete di rapporti e conoscenze, talché può essergli possibile passare da una parte all’altra, o trovare soluzioni di ripiego (ho detto “può”, non che sia garantito o automatico), chi, invece, è fuori da quel mondo trova ancora più complicato vederne i punti di accesso e le necessità. Dovrebbero soccorrerli gli uffici di collocamento, che l’ennesima riforma inutile chiamò “centri per l’impiego”. Invece sono un disastro: non solo hanno trovato lavoro solo all’1,8% dei nuovi assunti nell’ultimo anno, ma essendo gestiti dalle mitiche e intramontabili province è più facile sapere se si libera un posto a Stoccolma che a dieci chilometri da casa. Avere una politica per l’occupazione giovanile significa approntare una banca dati nazionale, renderla trasparente e consultabile (la cosa più facile del mondo, se solo si rade al suolo la foresta della rendita burocratica), nonché integrare il lavoro della agenzie private con quel che c’è dell’apparato pubblico. A questo dovrebbero servire i fondi europei, che altrimenti andranno persi (come tanti altri, per nostra insipienza amministrativa).

Infine c’è una specificità decisiva, questa sì capace di creare un conflitto d’interessi fra giovani e maturi: gli occupati sono interessati a politiche di tutela e conservazione, i disoccupati a politiche di apertura e permeabilità. I vertici europei, nonché le politiche governative, dovrebbero avere il coraggio di affermare che su questo punto l’interesse dei giovani, quindi dei non garantiti, è più vicino all’interesse generale, che richiede recuperi significativi di competitività. Non sembri contraddittorio con la mia prima affermazione, perché una cosa è perdere il lavoro per recessione (quindi senza molte speranze), altra per dinamicità (quindi con la possibilità di rientrare).

Se ascolto le cose che si dicono nelle stanze governative, però, sento la musica fasulla di chi punta a offrire ai non garantiti le garanzie degli altri, dimenticandosi di vivere in un mondo aperto e in una competizione globale. Un mondo migliore di quello di ieri, ma che richiede, per non divenire un inferno, classi dirigenti la cui testa non sia rimasta nel secolo scorso.

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