Lotta all'evasione
Quante bugie moralistiche sulle tasse
Siamo sicuri che a evadere siano solo i ricchi a danno dei poveri?di Davide Giacalone - 12 giugno 2013
Nel mentre Enrico Letta annuncia un decreto legge “del fare”, specificando che si occuperà anche di materia fiscale. Nel mentre, immediata e puntuale, si apre la polemica su quali ne saranno i contenuti, la Confartigianato ripete che la pressione dell’erario è semplicemente intollerabile: 68,3% sugli utili lordi d’impresa, contro il 30,2 della Svizzera. Una volta si portavano i soldi nella confederazione elvetica, per evadere il fisco, ora conviene andarci a lavorare, per evitare che il fisco ti uccida. Vedremo casa ci sarà nel decreto, sperando che non sia la continuazione del montismo: grande inventiva nel battezzare, nessuna capacità nel realizzare, libidine nel tassare.
Il centro destra balla attorno al totem dell’Imu e dell’Iva, fin qui ottenendo solo rinvii. Il centro sinistra non riesce a credere ai propri occhi nel verificare che gli elettori si dimostrano meno severi di loro stessi, nel giudicarli. In realtà è solo una gara a chi perde di più: a febbraio la vinse il Pd, ora è in netto vantaggio il Pdl. La questione fiscale è determinante. E’ la sola chiave per convincere gli elettori che ha un senso partecipare alla contesa. Ma occorro idee vere. Siccome scarseggiano, ho letto con interesse le tesi di Yoram Gutgeld (senior partner McKinsey, oh yes), parlamentare del Pd e, a torto o a ragione, considerato ispiratore delle tesi fiscali di Matteo Renzi. Egli dice: la via giusta non è né quella di tagliare la spesa dello Stato sociale né quella di aumentare le tasse. Bello, e allora? Dice: “la priorità assoluta è una vera lotta all’evasione fiscale, destinando i proventi ad alleggerire l’Irpef di chi guadagna fino a 1.000 – 1.200 euro al mese”. Plaudii alle novità renziane quando ancora si era agli albori leopoldini, ma questa è una banalità. Sconfortante.
Il presupposto (sbagliatissimo) è che evadono i ricchi a danno dei poveri. Ma da dove lo ricavano? Provino ad andare per mercatini, siano essi di prodotti alimentari o di vestiario, beni per la casa, utensili; provino a conoscere il mercato dei piccoli artigiani: l’evasione serve al cliente per acquistare e al venditore per non chiudere. Posto che l’acquirente compra roba da poco e il venditore si massacra di lavoro per essere su quella piazza. Quelli non sono evasori ricchi, ma poveri. Questo giustifica la loro evasione? La gnagnera moralistica non mi fa né caldo né freddo, guardiamo la concretezza delle cose. C’è un patto fiscale virtuoso, che recita: lavoro, produco reddito e una parte di questo, proporzionale e crescente, ma nell’ordine di un terzo, lo verso al fisco, per contribuire alla spesa collettiva. Ce n’è uno vizioso: siccome la parte che va al fisco supera la metà e sono non solo soldi buttati, ma tanti quanti ne bastano per impedire sia di comprare che di vendere, noi evadiamo e ci dividiamo la differenza fra il valore di mercato e il disvalore fiscale. Il primo patto è onesto e il secondo disonesto, ma solo se non è disonesto lo Stato esattore. Che è, invece, il nostro caso.
Quindi Gutgeld non cada nell’illusione culturale che regge l’esosità del fisco, perché funziona all’esatto contrario: s’impoveriscono i poveri. Una “vera lotta all’evasione” si accanirà contro di loro, mentre il ricco avrà armi per difendersi. Siccome, però, non possiamo rassegnarci alla disonestà collettiva, ne deriva che c’è una premessa obbligata: far scendere la pressione fiscale. Prima, non dopo. Come condizione per punire gli evasori, non come conseguenza del supplizio. Si obietta: ma così crolla il gettito. Dove sta scritto? Il gettito scema perché la fiscalità demoniaca è recessiva e terrorizzante, quindi i consumi crollano, e cala anche perché il suo satanismo è così conclamato da santificare l’arte di sfuggirgli.
Guardate le dichiarazioni dei redditi: gli italiani sono tutti poveri. Che non è vero, ma è la conseguenza del fiscalismo sottrattore. Se si vuole cambiare musica (e si deve) non serve a nulla far la faccia feroce dei fessi, ma si deve restituire soldi tagliando la spesa. Cosa che si può fare, come qui ci affanniamo concretamente a dimostrare, senza incidere sui servizi utili. Dietro la dizione “Stato sociale” c’è la più asociale distruzione di ricchezza. Se non partiamo da lì, se continuiamo a far guerricciole dementi sulle cosucce di bandiera, potremo perseverare nel trovare nomi fantasiosi per i decreti, utili solo a decretare l’inutilità della politica.
Il centro destra balla attorno al totem dell’Imu e dell’Iva, fin qui ottenendo solo rinvii. Il centro sinistra non riesce a credere ai propri occhi nel verificare che gli elettori si dimostrano meno severi di loro stessi, nel giudicarli. In realtà è solo una gara a chi perde di più: a febbraio la vinse il Pd, ora è in netto vantaggio il Pdl. La questione fiscale è determinante. E’ la sola chiave per convincere gli elettori che ha un senso partecipare alla contesa. Ma occorro idee vere. Siccome scarseggiano, ho letto con interesse le tesi di Yoram Gutgeld (senior partner McKinsey, oh yes), parlamentare del Pd e, a torto o a ragione, considerato ispiratore delle tesi fiscali di Matteo Renzi. Egli dice: la via giusta non è né quella di tagliare la spesa dello Stato sociale né quella di aumentare le tasse. Bello, e allora? Dice: “la priorità assoluta è una vera lotta all’evasione fiscale, destinando i proventi ad alleggerire l’Irpef di chi guadagna fino a 1.000 – 1.200 euro al mese”. Plaudii alle novità renziane quando ancora si era agli albori leopoldini, ma questa è una banalità. Sconfortante.
Il presupposto (sbagliatissimo) è che evadono i ricchi a danno dei poveri. Ma da dove lo ricavano? Provino ad andare per mercatini, siano essi di prodotti alimentari o di vestiario, beni per la casa, utensili; provino a conoscere il mercato dei piccoli artigiani: l’evasione serve al cliente per acquistare e al venditore per non chiudere. Posto che l’acquirente compra roba da poco e il venditore si massacra di lavoro per essere su quella piazza. Quelli non sono evasori ricchi, ma poveri. Questo giustifica la loro evasione? La gnagnera moralistica non mi fa né caldo né freddo, guardiamo la concretezza delle cose. C’è un patto fiscale virtuoso, che recita: lavoro, produco reddito e una parte di questo, proporzionale e crescente, ma nell’ordine di un terzo, lo verso al fisco, per contribuire alla spesa collettiva. Ce n’è uno vizioso: siccome la parte che va al fisco supera la metà e sono non solo soldi buttati, ma tanti quanti ne bastano per impedire sia di comprare che di vendere, noi evadiamo e ci dividiamo la differenza fra il valore di mercato e il disvalore fiscale. Il primo patto è onesto e il secondo disonesto, ma solo se non è disonesto lo Stato esattore. Che è, invece, il nostro caso.
Quindi Gutgeld non cada nell’illusione culturale che regge l’esosità del fisco, perché funziona all’esatto contrario: s’impoveriscono i poveri. Una “vera lotta all’evasione” si accanirà contro di loro, mentre il ricco avrà armi per difendersi. Siccome, però, non possiamo rassegnarci alla disonestà collettiva, ne deriva che c’è una premessa obbligata: far scendere la pressione fiscale. Prima, non dopo. Come condizione per punire gli evasori, non come conseguenza del supplizio. Si obietta: ma così crolla il gettito. Dove sta scritto? Il gettito scema perché la fiscalità demoniaca è recessiva e terrorizzante, quindi i consumi crollano, e cala anche perché il suo satanismo è così conclamato da santificare l’arte di sfuggirgli.
Guardate le dichiarazioni dei redditi: gli italiani sono tutti poveri. Che non è vero, ma è la conseguenza del fiscalismo sottrattore. Se si vuole cambiare musica (e si deve) non serve a nulla far la faccia feroce dei fessi, ma si deve restituire soldi tagliando la spesa. Cosa che si può fare, come qui ci affanniamo concretamente a dimostrare, senza incidere sui servizi utili. Dietro la dizione “Stato sociale” c’è la più asociale distruzione di ricchezza. Se non partiamo da lì, se continuiamo a far guerricciole dementi sulle cosucce di bandiera, potremo perseverare nel trovare nomi fantasiosi per i decreti, utili solo a decretare l’inutilità della politica.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.