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Veltroni e Berlusconi, demagogie parallele

Programmi soltanto elettorali

A tenere banco è la povertà di analisi,la poca fantasia e l'assenza di coraggio.

di Enrico Cisnetto - 08 febbraio 2008

No, proprio non ci siamo. Non era stato neppure formalizzato lo scioglimento delle Camere che già partiti e think tanks politici hanno tirato fuori “decaloghi” pronti per la campagna elettorale. “Ecco in sette punti il programma di governo di Berlusconi”, titola il Giornale suscitando l’attesa per gli ormai già famosi “disegni di legge”, la nuova trovata di marketing con cui il Cavaliere cerca di vendere come nuova merce da vintage. Allora ecco Morando che per conto di Veltroni – non il Pd per se stesso, si badi bene, ma uno per il capo – studia le 40 pagine con cui, grazie ad un risparmio dell’86% sul tomo dell’Unione di due anni fa, la sinistra riformista si gioca “solitaria” la partita delle elezioni del 13 aprile. E poi ecco spuntare le “dieci azioni per cambiare l’Italia” del ministro Lanzillotta, sottoscritte da un ottimo parterre de roi, e le “prime cento ore” del governo terzo governo Berlusconi (quarto se si considera il raddoppio del 2005) a cura di Daniele Capezzone. Bene, verrebbe da dire, finalmente un po’ di fervore programmatico dopo tutto quel tempo (buttato) dedicato alla politica-politica. Peccato, però, che chi era (anzi, ancora è) al governo non abbia sentito la necessità di misurarsi su questi così ben congegnati (apparentemente) pacchetti di proposte, e chi era all’opposizione nel frattempo abbia solo coltivato l’idea di tornare – come peraltro è statisticamente certo, visto che il nostro fallimentare bipolarismo prevede l’alternanza “obbligatoria” – a palazzo Chigi. Ma soprattutto, peccato che le proposte che si vedono in giro non sia affatto adeguate alle necessità sempre più stringenti del Paese, peccando esse per eccesso sia di genericità sia di buonismo-populismo. Nessuno, tanto per cominciare, si assume la responsabilità non tanto di chiamare il declino con il suo nome, ma neppure lontanamente di evocarlo.

A leggere chi si accingerebbe a governare (Berlusconi), tra riduzioni dell’Ici e agevolazioni per la casa, sembra di capire che il problema numero uno dell’Italia sia quello dell’equità, non della crescita. Della serie: chi ha detto che i comunisti sono più amici del popolo di noi? Sulla casa, in particolare, si riesce a raggiungere il massimo della stupidità: “casa a favore dei giovani e garantire la proprietà dell’abitazione anche a quel 13% di famiglie che non ne dispone”. Ma come, siamo l’unico paese del mondo che ha quel tasso così alto di proprietà immobiliare (Stati Uniti poco sopra il 50%), che comporta conseguente blocco della mobilità (anche sociale, oltre che fisica), viviamo la contraddizione tra un debito pubblico e un patrimonio privato eccezionalmente alti, per cui dovremmo “smobilizzare” un bel po’ di tutto quel mattone che abbiamo accumulato e che ci zavorra negli investimenti e dunque nello sviluppo, e andiamo a chiedere il voto degli italiani in nome di una politica che dovrebbe essere esattamente il contrario per il solo fatto che dire “casa per tutti” suona meglio alle orecchie dell’elettore? Desolante. Invece, non un a parola sulla condizione del capitalismo italiano, sul modello di sviluppo che ci si vuole dare, sulle scelte di politica industriale da fare (Alitalia e Malpensa, che fine fanno? Quando si parla da Firenze in sù si è per AirOne e per l’hub del nord, e viceversa quando ci si rivolge ai cittadini centro-meridionali?). Si riafferma la necessità di ridurre le tasse (a suo tempo non attuata), ma non si dice quali voci della spesa pubblica si intendono toccare per recuperare le risorse necessarie. Imbarazzante.

Non meno genericità e demagogia s’intravede nei papers che cominciano a circolare intorno agli uomini dell’onorevole “ma anche”. Morando, che peraltro è riformista serio e coerente, sforna tre grandi capitoli (equità, efficienza e democrazia decidente) già più equilibrati, ma anche qui di declino e delle risposte necessarie per fermarlo e batterlo, non si vede neppure l’ombra. Così come a fronte dell’alleggerimento del carico fiscale sulle buste paga e della correzione (indicata come successiva) delle aliquote Irpef non c’è nessun capitolo di spesa tagliato. Buone un paio di idee sul welfare (l’idea di Boeri del “contratto unico” e l’incoraggiamento, anche fiscale, del decentramento dei contratti di lavoro) ma nulla di autocritico si dice sulla sciagurata scelta del governo Prodi relativa allo scalone pensionistico, così come nella sostanza si eludono le domande-proposte lanciate da Ichino. E ancora: timidezza sulla pubblica amministrazione (“proseguire sulla strada indicata da Nicolais”), nessuna indicazione sulla indispensabile riduzione della “catena democratica” e dunque nulla di critico sul federalismo e di autocritico su quel maledetto titoloV modificato dal centro-sinistra a fine legislatura nel 2001. Anzi, la proposta di attuare il federalismo fiscale consacra l’idea che l’Italia si possa riprendere grazie allo spezzettamento dei poteri. Meglio, allora i dieci punti di Glocus, anche se risentono dell’influenza di quella corrente di pensiero liberista che immagina sia sufficiente scrivere le regole di funzionamento del libero mercato per “sbloccare l’Italia”.

Ma nel complesso, a tenere banco è la povertà di analisi, la mancanza di sguardo ai grandi fatti mondiali (ruolo dell’Asia, crisi finanziaria in atto), l’assenza di coraggio e fantasia nell’indicazione delle terapie. E buon pro faccia a tutti quelli che sono davvero convinti che queste elezioni saranno la medicina giusta per l’Italia.

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