Tremonti ha ragione ma solo in parte
Prodi è come Fazio
La rete delle reti non è un sarchiapone, ma lo strumento per creare un nuovo grande gruppodi Enrico Cisnetto - 22 settembre 2006
Ha ragione Giulio Tremonti quando dice che “Prodi è come Fazio”, ma non per le ragioni cui polemicamente allude. Il premier assomiglia all’ex governatore perché, come lui con la difesa dell’italianità delle banche, rischia di bruciare un progetto giusto – la “rete delle reti” – sull’altare di comportamenti sbagliati. Sì, lo so che il Foglio di martedì ha criticato quel disegno, rincarando il giorno dopo la dose con una condanna (giusta) delle nostalgie di una nuova Iri. Ma non è certo la prima volta che in questa rubrica si scrivono cose diverse dalla linea del giornale (e questo è un grande merito di Giuliano Ferrara). Ho l’impressione che il fuoco di sbarramento – penso al fondo di Gavazzi, e più autorevolmente all’intervista di Mario Monti – sia partito da un armamentario “ideologico”: privato è meglio di pubblico (per definizione), guai ad un Stato che voglia tornare a fare il padrone o anche solo a mettere il naso laddove deve comandare il (mitico) mercato. Naturalmente, da liberale, non mi sfugge la differenza tra Stato e mercato, ma da pragmatico, cioè non liberista – il liberismo è l’unica ideologia sopravissuta alla caduta delle (altre) ideologie, ma pur sempre di una gabbia schematica si tratta – pretende che le analisi partano dalla realtà, non da ciò che ci piacerebbe che fosse. E la realtà ci dice – come clamorosamente conferma l’intera vicenda Telecom, dalla privatizzazione in poi – che, nel mondo privato, al “capitalismo senza capitali” che dal dopoguerra fino alla fine degli anni Ottanta ha vissuto di sussidi pubblici, protezionismo, svalutazioni “competitive” della lira, dipendenza dalle partecipazioni statali e della straordinaria intelligenza di Enrico Cuccia, si è andato sostituendo un “capitalismo senza idee”, privo di progettualità, incapace di investire nel lungo periodo, gretto, provinciale, individualista. La stagione delle privatizzazioni non è stata solo un fallimento della politica, che ha saputo solo fare cassa per evitare scelte coraggiose di finanza pubblica, ma anche del sistema economico e finanziario, che a suoi piani alti si è consumato in un autodistruttivo regolamento di conti, e a quelli più bassi si è riprodotto come i conigli in nome del “piccolo è bello”, dando vita ad un capitalismo frantumato e atomizzato proprio mentre il mondo andava nella direzione (opposta) delle grandi dimensioni. Il declino strutturale e strategico dell’Italia – che non ha nulla a che fare con la congiuntura e che investe responsabilità diffuse e politicamente bipartisan – sta tutto qui: una gravissima perdita di produttività e competitività che ha generato deindustrializzazione interna e marginalizzazione internazionale. Domando: perché “questo” capitalismo dovrebbe essere capace di invertire la rotta del declino? E in un paese democratico, a cominciare da quelli di stampo e tradizione liberale, a chi spetta il compito di progettare il futuro se non alla Politica? E perché, se in una determinata contingenza storica le forze del mercato faticano a trovare la strada, lo Stato non dovrebbe svolgere un ruolo attivo, avendo come obiettivo non la supremazia – quella gliela dà il mandato popolare – sui privati e la cosiddetta società civile, ma il perseguimento dell’interesse generale? No, non si tratta di rifare l’Iri, né di pulsioni dirigiste, ma di semplice politica industriale. Quella che un governo di centro-destra come quello francese fa con l’Agenzia per lo sviluppo creata a seguito del rapporto Beffa, o quella che il governo socialdemocratico di Schroeder ha fatto – per nulla contraddetta, anzi, dalla Grosse Koalition della Merkel –favorendo la migrazione del manifatturiero povero verso l’Est e irrobustendo le grandi imprese a forte contenuto tecnologico. Solo che l’Italia sta peggio – quanto ad apparato produttivo, terziario, innovazione, ricerca e tecnologia, internazionalizzazione, sistema energetico, infrastrutture materiali e immateriali, scuola e formazione – e dunque l’impegno per la sua modernizzazione e globalizzazione richiede sforzi maggiori. Da solo lo Stato non è in grado di farcela, ma il capitalismo nemmeno. Bisogna che, partendo dalla trasformazione del sistema politico – propedeutica a tutto il resto – si riscriva la costituzione materiale di questo paese, un patto tra sistemi e generazioni per darsi un progetto per il futuro che non sia solo quello dell’autoperpetuazione conservativa.
Perché tutta questa dissertazione filosofica con il caso Telecom che bolle in pentola?
Perché Prodi, con un comportamento inqualificabile per un premier, ha buttato alle ortiche la possibilità di costruire, a partire da Telecom, una politica industriale degna di questo nome. Ha voglia il ministro Bersani di preparare progetti – basterebbe copiare i francesi – ha voglia la Confindustria con l’ottimo Pistorio a predicare la necessità di dirottare risorse lungo l’asse formazione-ricerca: se non si parte dall’esistente mettendolo a sistema, non basterà la volenterosa ma limitata e un po’ casuale riconversione operata dagli imprenditori più avveduti.
Telecom non è strategica perché gestisce il traffico telefonico, ma per le infrastrutture materiali che possiede e per quelle immateriali che ne rappresentano il futuro: che un governo se ne occupi e preoccupi non solo è normale, ma doveroso e che di fronte alla necessità di sistemare una volta per tutte il debito Telecom, preferisce che si eviti la cessione a stranieri della telefonia mobile, è altrettanto sano. Se poi si legge l’intervista a François de Brabant (Corriere della Sera del 17 settembre), esperto internazionale di Tlc e non sospettabile di conflitti di interesse, si capisce come lo scorporo della rete fissa non solo sia l’alternativa alla cessione di Tim (che però può tornare in Borsa ed essere controllata con il 51% o anche meno), ma rappresenti l’idea più giusta perché l’Italia possa fare un salto tecnologico decisivo attraverso la diffusione e l’uso della banda larga.
La “rete delle reti”, poi, non è affatto un “sarchiapone” ma lo strumento con cui si crea un nuovo grande gruppo – ne siamo poveri – capace di trascinare sul piano della modernizzazione tecnologica l’intero sistema- Paese. Non si tratta di creare un carrozzone pubblico, ma una public company in cui lo Stato abbia solo un ruolo di garanzia. La possono fare i privati? S’accomodino, declinando però i loro nomi e soprattutto spiegando con quali soldi agirebbero.
Certo, se si fa finta che il declino sia l’invenzione di qualche menagramo, se partiti e leader fanno a gara nel raccontare bugie per evitare scelte coraggiose, allora tutto questo ragionamento non ha ragion d’essere. Esso si giustifica solo se si parte dal presupposto che la priorità assoluta del Paese è quella di ritrovare la strada dello sviluppo. Che poi Prodi – per bramosia di potere e infantile spirito di rivincita – abbia buttato nel cesso un’ottima intenzione, è vero, verissimo. Ma è tutto un altro discorso.
Pubblicato sul Foglio del 22 settembre 2001
Perché tutta questa dissertazione filosofica con il caso Telecom che bolle in pentola?
Perché Prodi, con un comportamento inqualificabile per un premier, ha buttato alle ortiche la possibilità di costruire, a partire da Telecom, una politica industriale degna di questo nome. Ha voglia il ministro Bersani di preparare progetti – basterebbe copiare i francesi – ha voglia la Confindustria con l’ottimo Pistorio a predicare la necessità di dirottare risorse lungo l’asse formazione-ricerca: se non si parte dall’esistente mettendolo a sistema, non basterà la volenterosa ma limitata e un po’ casuale riconversione operata dagli imprenditori più avveduti.
Telecom non è strategica perché gestisce il traffico telefonico, ma per le infrastrutture materiali che possiede e per quelle immateriali che ne rappresentano il futuro: che un governo se ne occupi e preoccupi non solo è normale, ma doveroso e che di fronte alla necessità di sistemare una volta per tutte il debito Telecom, preferisce che si eviti la cessione a stranieri della telefonia mobile, è altrettanto sano. Se poi si legge l’intervista a François de Brabant (Corriere della Sera del 17 settembre), esperto internazionale di Tlc e non sospettabile di conflitti di interesse, si capisce come lo scorporo della rete fissa non solo sia l’alternativa alla cessione di Tim (che però può tornare in Borsa ed essere controllata con il 51% o anche meno), ma rappresenti l’idea più giusta perché l’Italia possa fare un salto tecnologico decisivo attraverso la diffusione e l’uso della banda larga.
La “rete delle reti”, poi, non è affatto un “sarchiapone” ma lo strumento con cui si crea un nuovo grande gruppo – ne siamo poveri – capace di trascinare sul piano della modernizzazione tecnologica l’intero sistema- Paese. Non si tratta di creare un carrozzone pubblico, ma una public company in cui lo Stato abbia solo un ruolo di garanzia. La possono fare i privati? S’accomodino, declinando però i loro nomi e soprattutto spiegando con quali soldi agirebbero.
Certo, se si fa finta che il declino sia l’invenzione di qualche menagramo, se partiti e leader fanno a gara nel raccontare bugie per evitare scelte coraggiose, allora tutto questo ragionamento non ha ragion d’essere. Esso si giustifica solo se si parte dal presupposto che la priorità assoluta del Paese è quella di ritrovare la strada dello sviluppo. Che poi Prodi – per bramosia di potere e infantile spirito di rivincita – abbia buttato nel cesso un’ottima intenzione, è vero, verissimo. Ma è tutto un altro discorso.
Pubblicato sul Foglio del 22 settembre 2001
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.