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Ancora socialismo per il Partito democratico?

Problemi irrisolti nella lunga diatriba

Mentre si fa sempre più confuso il dibattito sulla futura formazione politica

di Elio Di Caprio - 11 settembre 2006

E" duro vivere politicamente senza ideologie di riferimento. Il dibattito ospitato da quasi un mese sulle colonne di Repubblica su quale sinistra e su quale idea di socialismo possano fondarsi ora, nel 2006, quelle che una volta si ritenevano le “forze progressiste”, è emblematico delle inquietudini che ancora agitano quel mondo rimasto orfano da quasi 20 anni di un mito, di una speranza, di un"idea-forza di radicale cambiamento sociale.
I problemi non risolti della lunga diatriba, italiana più che europea, che per tutto un secolo, nel novecento e oltre, ha opposto il socialismo democratico e riformista al comunismo rivoluzionario di marca sovietica o cinese fino ai no global di “un altro mondo è possibile”, hanno lasciato strascichi emotivi e irrazionali che difficilmente possono trovare un loro componimento in una nuova sintesi pragmatica, così come vorrebbero i fautori del “partito democratico della sinistra”, a partire da Walter Veltroni. Non basta a tal fine il lodevole proposito di riuscire a dare voce univoca ai nove partiti e partitini di sinistra e centrosinistra che attualmente ci governano.
In epoche di abiure e di distinguo l"estrema sinistra de Il Manifesto non trova di meglio che uscirsene con il titolo provocatorio “ Trent"anni dopo, onore a Mao!”, come se le travagliate vicende dei pentiti a metà del vecchio Pci – dall"epurata Rossana Rossanda al problematico Pietro Ingrao – testimoniassero un percorso politico possibile alternativo, e certamente in buona fede, accidentalmente interrotto e sconfitto da vicende storiche più grandi di noi e di loro, tipo la caduta del Muro di Berlino....
E" stato a questo punto più coerente ed audace il percorso di Aldo Brandirali che dal maoista “Servire il popolo” è giulivamente approdato a Forza Italia e a Comunione e Liberazione, diventandone uno degli esponenti di punta in quel di Milano?
Secondo Brandirali il maoismo del 1968 era valido come “critica al modello sovietico, l"unica etica corrispondente all"ideale comunista... ma noi sbagliammo ad essere maoisti come ci siamo sbagliati ad essere comunisti...”
Bene. In tanti si sono ricreduti.
Ma quello che traspare ancora oggi dalle disquisizioni su Repubblica di dotti intellettuali italiani ed europei (da Giddens, ad Amato, a Touraine, a Lloyd, a Reichlin, a Strauss Kahn, a Salvadori, allo stesso Veltroni) sul significato da dare oggi alla militanza di sinistra, è il persistente ritardo da parte italiana nell"elaborazione di quello che può chiamarsi il lutto politico dovuto all"inaspettata fine del punto di riferimento del comunismo internazionalista. In più affiora da noi lo spaesamento ideologico di chi sembra ancora sentirsi obbligato a scegliere i filoni su cui attestarsi per esprimere un messaggio politico all"altezza dei tempi.
Ma c"è veramente bisogno di questa ricerca su cosa salvare del socialismo vecchia maniera o si tratta di un problema che è tale solo per la vecchia generazione “ideologica”?
Almeno il laburista A. Giddens ha il coraggio provocatorio di misurarsi nel dibattito con l"assioma che “il socialismo è morto, la sinistra no”. Alain Touraine dal suo canto invita a lasciare in pace il termine socialismo per ripensare e interpretare le conseguenze della globalizzazione. Altri intellettuali esortano a non indugiare in vecchi schemi e a prendere atto della realtà mutata, dai nuovi diritti, all"immigrazione, al panorama energetico mondiale sempre più instabile, ai conflitti identitari e di religione.
La verità è che i ritardi della sinistra italiana di oggi riflettono quelli di ieri.
Chi tra gli intellettuali italiani di sinistra o ex sinistra ha avuto o avrebbe mai il coraggio di criticare la militanza giovanile nei movimenti maoisti, come fa oggi Andrè Glucksmann, quando ammette che “accettando a suo tempo l"etichetta di anarco-maoista sono sceso a patto con lo sterminio di milioni di uomini agli antipodi”?
Del resto l"elaborazione critica di Glucksmann risale agli anni "80 quando come esponente di punta dei dei noveaux philosophes francesi ebbe il coraggio, assieme a Bernard Henry Levi, di andare oltre il credo maoista per attaccare duramente la realtà – per i comunisti italiani era invece una degenerazione temporanea - dei regimi comunisti mettendone in rilievo gli immutabili tratti illiberali nonché il fallimento dei loro fini egualitari. I loro saggi contro i “padroni del pensiero” di allora o sulla “barbarie dal volto umano”, tradotti in italiano da piccole case editrici, non ebbero grande risonanza.
Da noi invece che succedeva in quegli anni? Andava in voga l"eurocomunismo di Natta e Berlinguer, il partito comunista prendeva le distanze dall"ospitalità che il minoritario PSI di Craxi concedeva ai dissidenti dell"Est europeo, a cominciare da Jiri Pelikan, eletto deputato europeo con il contributo determinante dei socialisti italiani. E" un passato che pesa ancora nella sinistra italiana dove gli equivoci e le ambiguità non sono del tutto spariti.
Ora si parla di un partito democratico liberal-riformista ( il “liberal” ci sta sempre bene) che s"ha da fare in Italia per rendere meno confuso l"attuale bipolarismo. Ma siamo certi che è conveniente e saggio partire proprio con la domanda su quale sinistra e quale socialismo porre a fondamento del nuovo partito?

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