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Public Policy

Tasse e soprusi

Prepotenza fiscale

L’evasione è antisociale, ma anche una pressione fiscale insensata lo è

di Davide Giacalone - 03 febbraio 2012

In nome della lotta all’evasione fiscale va prendendo corpo la brutalità fiscale. Soffiando sul fuoco dell’invidia e della rivalsa si scalda il consenso verso pratiche che rischiano d’incenerire sia l’equità che la convivenza civile. Nel mentre si prendono provvedimenti per la semplificazione amministrativa si mette in campo un micidiale meccanismo di complicazioni fiscali. Approfittando del fatto che la politica si nasconde e la rappresentanza reale dei cittadini svanisce va in scena una rappresentazione ingannevole, fino al punto di capovolgere le cose e prendere come indici di possibile disonestà quel che, invece, dovrebbe essere favorito e agevolato. Mi preoccupa l’effetto immediato di tutto ciò, ma ancor più quel che provocherà nel tempo. Sicché, ben consapevole dei rischi che questo comporta, penso si dovrebbe considerare civile e responsabile un sano movimento di protesta fiscale.

Ora scusatemi, ma onoro il pizzo al politicamente corretto: le tasse si pagano e la lotta all’evasione è cosa buona e giusta. Ecco, sganciato l’obolo all’ovvio, passiamo al lato oscuro. In uno Stato di diritto, ove la giustizia funzioni, vale il principio: male non fare, paura non avere. Nel caso fiscale: le persone oneste non hanno nulla da temere. Ma noi viviamo nel Paese in cui prima t’arrestano e poi ti ascoltano, per poi chiudere la partita dopo una decina d’anni. Abbiamo un fisco che prima accerta, poi contesta, quindi pretende d’incassare e, se proprio insisti, con calma e senza spingere, consulta un giudice. Da noi lo Stato che ti deve dei soldi ti ride in faccia e ti rimanda al futuro, ma se pensa di doverli avere se li prende subito, anche ove il cittadino creda di avere ragione, di essere onesto, di non dovere avere paura e, per questo, ha presentato un regolare ricorso. In quel caso è declassato da cittadino a suddito, che deve ringraziare se il suo fetido caso non viene anche esposto al pubblico ludibrio, come ai tempi della gogna. Viviamo in uno Stato che siccome non riesce a far funzionare la giustizia considera ostruzionistico e dilatorio il ricorrervi, e, per ciò stesso, si ritiene legittimato a incassare prima ancora di giudicare. In altre parole: la nostra libertà, fisica ed economica, non è nelle mani del giudice, ma del burocrate dell’accusa e dell’accertamento.

Il redditometro va benissimo, è uno strumento utile a stanare chi consuma più di quel che guadagna e che, quindi, deve essere chiamato a spiegare. Ma se mentre spiega, o, meglio, se mentre attende di potere spiegare a qualcuno che non sia l’esattore, gli si toglie qualche cosa, allora diventa uno strumento di tortura. E se molti cittadini saranno attizzati dalla voglia di vedere gli altri pagare, senza badare alle loro ragioni, altri, non pochi, subiranno frustate sotto le quali possono stramazzare (specie se si tratta di aziende) e sanguinare. Il che porterà a condotte ispirate più all’arte del nascondere che dell’aderire alla legge, perché in assenza di giustizia non c’è diritto. Quindi i capitoli del redditometro divengono altrettanti indici di quel che si sconsiglia di fare. Esempio: pagare un master di specializzazione, per sé stessi o per i propri figli (io lo faccio), magari all’estero, è un comportamento socialmente virtuoso, perché ci si priva di consumi immediati in vista di maggiori capacità con cui far crescere il mercato, ma se quella stessa spesa, che dovrebbe essere defiscalizzata, perché si tratta d’investimento privato in istruzione che ha valore pubblico, diventa indicatore di possibile evasione il risultato che si ottiene è che si trova la risposta all’obiezione (giusta) di Mario Monti: è vero che il posto fisso, a vita, non è il massimo della gioia, ma in Italia è l’unico rifugio sicuro. Tutela dai pericoli del mercato, ma anche da quelli del fisco. Secondo esempio: anche assicurare la casa è comportamento socialmente virtuoso, e privatamente prudente, e magari lo avessero fatto quelli che poi la perdono in disastri naturali. Ma se lo si considera sotto la luce dell’onestà fiscale lo si scoraggia. Terzo esempio: a che serve agevolare l’apertura di piccole imprese, se poi sappiamo benissimo che con questa pressione fiscale già stentano, salvo poi essere sbriciolate da un accertamento che pretende d’avere subito, in contanti, quel che non si ritiene di dover dare? E così via. Perché è vero che l’evasione è antisociale, ma senza mai dimenticare che lo è anche una pressione fiscale insensata e una prepotente espropriazione in attesa di giudizio. E senza far finta di non sapere che in queste condizioni lo sviluppo e la crescita del prodotto interno ce li possiamo scordare. Sono aspirazioni incoerenti con le premesse. Sappiamo tutti che la materia fiscale è dolorosa e complessa, ma proprio per questo allarma, e tanto, l’andazzo populista e demagogico di una “lotta all’evasione” tutta orchestrata sullo spartito della prepotenza statalista e della mungitura forzata di quelle povere vacche che ancora s’ostinano a tenere vivo il mercato.

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