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Da Parigi segnali di risveglio generazionale

Precarietà, giovani e nuova politica

Problemi primari l’assenza di politiche settoriali e le mancate liberalizzazioni

di Luca Bolognini * - 23 marzo 2006

In questi giorni assistiamo, curiosi e sorpresi, alle rivolte studentesche di Parigi contro il contratto di primo impiego. I miei amici e colleghi, mediamente under35, si compiacciono e in alcuni casi esultano. Sperano. Che arrivi qui da noi, che la protesta si allarghi, che l’opposizione alla precarietà si fortifichi. Mi permetto di non condividere appieno queste posizioni, e rilancio con un’analisi forse fuori dal coro, ma sincera. Ci sono due aspetti che rappresentano gli eventi francesi, e mi appaiono (o almeno li sento) antitetici fra loro. Il primo preoccupa e mi sembra investire un ragionamento politico più vasto. Il secondo, in probabile accordo con quanto leggo in questi giorni e con l’entusiasmo dei più, mi dà invece fiducia. Insomma, nelle proteste parigine vedo molti lati, parecchi negativi e solo alcuni positivi. Parto dal primo aspetto, quello preoccupante: le nuove generazioni, che lottano mosse dalla precarietà, contro chi stanno combattendo? Con quali obiettivi? Volendo ottenere quali risultati? Sono necessarie alcune riflessioni, perché ho timore si stia sbagliando bersaglio. La precarietà, il fatto cioè che il lavoro sia divenuto instabile e che in molti casi venga drammaticamente meno per crisi di interi sistemi industriali, è un effetto di cause complesse e spesso enormi. Queste cause si compongono, per la loro maggior parte, di elementi oggettivi macroscopici e non così dipendenti dal diritto del lavoro, dai contratti, in ultima analisi dai desideri. Per esempio, il fatto che una fabbrica di magliette in Veneto o in Provenza non funzioni più come una volta non deriva tanto dalla cattiveria delle politiche lavoristiche dei governi (che non hanno foraggiato casse integrazioni o favorito posti fissi) bensì dalle invasioni di mercato operate con intensità crescente e a costi stracciati dalle tigri asiatiche. Altro esempio: il fatto che un lavoratore non possa più ambire al posto fisso deriva da una logica oggettiva (per quanto crudele) che risiede nella rapidità con cui cambiano i cicli, nella palese necessità di rinnovo continuo delle conoscenze e delle competenze, nell’avanzamento velocissimo delle nuove tecnologie. Questa mobilità incessante è un volto fisiologico – ahinoi – della società complessa in cui viviamo e vivremo, piaccia o non piaccia. E non dipende, almeno nei suoi caratteri più massicci, dall’intervento di un piccolo “staterello” o di un insieme di “staterelli” al centro del globo in materia di politiche giuslavoristiche. E’ la globalizzazione, e non possiamo farci niente. Il giovane avvocato di Roma non compete semplicemente con altri avvocati di Roma: compete con le firme internazionali con sede a Roma. L’imprenditore e il dipendente di una fabbrica di tessuti in Piemonte non competono con le industrie lombarde o piemontesi, competono con il mondo, e se non vincono l’azienda chiude. Licenziato l’imprenditore, licenziato il dipendente (prima quest’ultimo, già, ma è solo questione di tempo).

Ecco che contestare i governi e l’Europa su tale piano mi sembra poco realistico e oggettivo, e molto chiassosamente inutile. Con questo - lo dico perché sento la rabbia di chi sta leggendo e crede me ne sia dimenticato – non scordo affatto l’utilità e il buon senso di regole di welfare e tributarie intelligenti, assolutamente da attuare, come la previsione di validi ammortizzatori sociali (che non dissuadano dal lavoro impigrendo le persone con forme assistenziali, ma nemmeno trasformino la mobilità in dramma esistenziale) o come la riduzione dell’impatto fiscale sul lavoro a tempo indeterminato, penalizzando, dalla prospettiva del datore, le assunzioni a progetto o a scadenza. Ma sono rimedi relativi, che applicati a un paziente moribondo equivalgono alla somministrazione dell’aspirina. Andare in piazza per chiedere l’aspirina mi sembra un clamoroso errore di valutazione. Servono gli antibiotici, e anche forti. Mi rendo conto che l’antibiotico sia farmaco più complesso, e non facilmente traducibile in slogan.

I governi e l’Europa hanno certamente gravi responsabilità, però di altro genere. Vado ad analizzarne alcune, concentrandomi infine sul caso italiano che è messo addirittura peggio. I punti incandescenti mi sembrano i seguenti:

1- Assenza di politiche settoriali. Da decenni mancano governi in grado di riformare i sistemi industriali delle vecchie potenze europee (solo la Germania ha fatto e sta facendo passi importanti in questa direzione e non a caso è avanti nell’export). E’ inutile tagliare tasse, riconoscere integrazioni, garantire posti fissi senza seri incentivi alla trasformazione della produzione, segando i rami secchi e favorendo i nuovi mercati futuribili. Un sistema economico vive e fiorisce se è competitivo, è competitivo se produce beni o servizi migliori o equivalenti a quelli offerti dagli altri concorrenti. Se no, muore, e non ci sono contratti collettivi o tutele che tengano.

2- Assenza di liberalizzazioni. Da almeno dieci anni si è capito che bisogna liberare da monopoli, vincoli e caste le libere professioni (gli ordini!) e i grandi settori come l’energia e le telecomunicazioni. Significa moltiplicare esponenzialmente le iniziative dei privati, innescando un meccanismo ossigenante e indispensabile per il rilancio.

3- Assenza di politiche giovanili. Una legislazione inadeguata non motiva le nuove generazioni alla creazione d’impresa, non aiuta. E’ assolutamente stupido riconoscere solo sgravi fiscali a un giovane che desideri fare impresa: servono gli strumenti per far iniziare, e questi strumenti sono i fondi di garanzia, i finanziamenti agevolati, sono un sistema bancario europeo che venga costretto dai governi a tenere conto delle nuove idee imprenditoriali e a comportarsi in maniera moderna negli investimenti. Solo i più giovani hanno l’energia e la capacità di sognare che veramente - lo dico da imprenditore di ventisei anni - possono consentirci di costruire un nuovo tessuto economico funzionante in Europa.

Perché allora sprecare un’imponente manifestazione politica neogenerazionale in proteste su temi non fondamentali e secondari? Ma soprattutto, perché non riusciamo ad appassionarci ai grandi temi, alle grandi riforme, alle questioni che stanno alla base dei veri problemi e alle soluzioni serie per risolverli? Senza queste passioni, anche il contratto di primo impiego conterà come il due di picche, di fronte alla desertificazione della nostra società. La situazione italiana è ancora più tragica: a proposito di intervento risanatore dell’economia da parte dello Stato, è bene ricordarci del nostro debito pubblico al 108% sul PIL, in crescita. Tanto per capirci, la Francia naviga intorno al 64%. Immaginate un padre di famiglia che guadagna mille euro al mese e deve pagare due mila euro al mese di mutuo. Settecento euro (dei suoi 1000) vanno a coprire neppure interamente la quota interessi del debito, il debito cresce, e con la miseria di 300 euro non restano soldi alla famiglia neppure per cambiare un pannolone al figlio. Altro che aiuti dall’alto, il nostro Stato è sull’orlo della bancarotta.

In questo simpatico contesto, sento dire con forza e rabbia che non è giusto essere precari. Bene, e che cosa è giusto in una siffatta “giungla”? Da quale entità suprema ci attendiamo la carezza e il sostegno? Ritorniamo al sano realismo di chi nel dopoguerra si è rimboccato le maniche. Non è giusto laurearsi e non avere garantito un lavoro? Sì, è crudele purtroppo, e allora? Perché, era forse giusto essere laureati negli anni trenta e non avere i soldi per mangiare un pezzo di cioccolato? Era giusto avere la laurea e morire ammazzati da una pallottola di piombo in Russia? Odio la guerra e adoro la riforma che ci ha liberato dalla leva, ma provate a parlare con i nostri nonni di giusto e ingiusto. E’ poi giusto essere medici ma vendere fazzoletti al semaforo, perché emigrati dal Congo o dal Marocco? E’ giusto aprire frutterie anche se si è ottenuta una laurea a Londra emigrando dal Pakistan? E’ giusto morire di fame a duemila km da Roma? Credo che ci soccorra quella celebre poesia di Fried, forzandola un poco: la situazione “è quel che è”. Un fruttivendolo è un’impresa. I rischi dei lavoratori dipendenti sono ormai gli stessi sofferti da quelli autonomi. Conviene darsi una mossa. Non si tratta di giustizia o ingiustizia, abbandoniamo queste categorie. Faccio un appello a tutti noi under35, destinati spero (secondo la felice definizione di Bonomi) a diventare la neoborghesia del terzo millennio: più serietà nell’individuazione dei problemi primari, più passione, più coraggio e più coinvolgimento sui grandi temi, più maniche rimboccate. Meno proteste sui temi relativi e secondari, meno orgoglio, meno status symbol, meno titoli.

E qui arrivo al secondo aspetto, quello positivo, quello che comunque mi dà fiducia. La necessità di avere giovani consapevoli e organizzati, che si costituiscano soggetto politico (trascendendo le divisioni preconfezionate che ci sono imposte dalle attuali, inadeguate e vecchie forze politiche) è al centro dei nostri obiettivi da anni. Quelle piazze francesi sono, malgré-tout, un sintomo di risveglio, di attivazione, di presa di coscienza e di impegno civile da parte dei giovani-adulti. Correggiamo il tiro sui contenuti ma andiamo avanti: serve una grande coalizione generazionale, per il ricambio autentico e democratico dei nostri decadentissimi Paesi europei.


*Presidente di Società Aperta Giovani
luca@lucabolognini.it

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