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Il mercato del lavoro deve essere dinamico

Precarietà, flessibilità: cosa cambia?

Oltre la facciata delle proteste, un deficit di consapevolezza di come viaggia l’Eropea

di Enrico Cisnetto - 08 maggio 2006

Precarietà è la parola più gettonata del momento. Solo che non è un sinonimo del concetto di declino, non si usa per evocare la progressiva marginalizzazione dell’Italia (e dell’Europa) nel mondo globalizzato – come sarebbe legittimo e necessario fare – ma indica la (presunta) fragilità della condizione lavorativa dei giovani. Con il risultato che a furia di confondere la causa con la conseguenza, si è finito col criminalizzare gli strumenti di flessibilità individuati per rendere più dinamico il mercato del lavoro. E’ successo in Francia, dove la protesta si è concentrata sul “contratto di primo impiego” voluto dal governo De Villepin, fino a farlo ritirare, e succede in Italia, dove per fortuna, pur essendoci chi soffia sul fuoco del “disagio del popolo anti-legge 30” le piazze non si sono ancora riempite. Forse perchè in realtà la tanto criticata “Biagi” ha consentito – insieme con il “pacchetto Treu”, di cui rappresenta la continuità – che diminuisse significativamente il tasso di disoccupazione. Le osservazione critiche, semmai, dovrebbero essere altre. Primo: con la crescita zero del pil, più lavoratori a parità di reddito prodotto facciano diminuire la produttività pro-capite; dunque, la priorità è il ritorno alla sviluppo. Secondo: la Biagi varrebbe la pena fosse pienamente applicata, visto che solo 9 regioni su 20 si sono attrezzate per introdurre l’apprendistato. Terzo: la stessa Biagi va completata con la riforma degli ammortizzatori sociali. In questi giorni il neo-segretario della Cisl, Bonanni, ha proposto di scambiare più flessibilità con più salario e, appunto, ammortizzatori: chi, in Confindustria, nello stesso movimento sindacale e nel costituendo governo, dovesse far cadere o contrastare questa sollecitazione, si assumerebbe una grave responsabilità.
Ma, detto questo, sono convinto che la vera precarietà stia nel combinato disposto tra la fine del modello economico europeo – e in modo particolare della sua versione italica – e il deficit di consapevolezza che questo processo sia già in atto da tempo (piaccia o non piaccia si chiama declino) senza alcun coraggio di spiegarlo ai cittadini (specie ai giovani) e di conseguenza nessuna capacità di fronteggiarlo. I giovani fanno bene a manifestare il loro disagio, ma dovrebbero mettere a fuoco che la questione non sta nel difendere lo status quo, bensì nel pretendere scelte politiche che vadano nella direzione di definire un nuovo modello di sviluppo e di trasformare lo stato sociale da sistema dei diritti a welfare delle opportunità. Nonché nell’incalzare un capitalismo vecchio e pigro a rinnovarsi, adeguandosi agli scenari globali, anziché continuare ad illudersi che la salvezza stia semplicemente in un costo del lavoro più basso, che al massimo può fornire alle imprese vittime della nuova competizione mondiale solo una breve (e inutile) boccata di ossigeno. Così come, i giovani, dovrebbero spiegare a chi pretende di rappresentarli – dal sindacato conservatore (la Cgil) ai movimenti del no a tutto passando per la sinistra di governo “ignorante” – che la flessibilità è un valore per l’individuo e una componente essenziale della modernizzazione del sistema economico, prima ancora che una modalità contrattuale. Ma ci sono giovani che abbiano capito dove si annida la vera precarietà?

Pubblicato sul Messaggero del 7 maggio 2006

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