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Le crepe del fragile capitalismo italiano

Poteri troppo deboli

L'uscita di Geronzi è solo la punta di un iceberg

di Enrico Cisnetto - 08 aprile 2011

Geronzi out? Amen. Ma che cosa ci sia di “epocale” nelle dimissioni “sollecitate” dalla presidenza delle Generali, francamente faccio fatica a capirlo. Certo, l’uomo è sempre stato “potente” e come tale poco incline alla sconfitta. E siccome, a ragione (quando aveva in mano le leve del credito) o a torto (quando, negli ultimi anni, non ha più avuto deleghe esecutive), lo si è associato al concetto evocativo e immaginifico di “potere forte”, vederlo costretto alla resa fa impressione.

Ma se si vuole evitare l’iconografia da quattro soldi e ragionare con un vero approccio di mercato, allora non si può che arrivare alla conclusione che qui di epocale – e non da adesso – c’è solo la crisi del capitalismo italiano, intesa come incapacità di svolgere un qualche ruolo sistemico nella dinamica della competizione globale, per evitare di essere, come purtroppo per molti versi è, una semplice somma di fatturati. A parte che in un paese immobile come questo, l’uso continuo della definizione “epocale” richiama inevitabilmente quel “gattopardismo” che è iscritto nel nostro dna a inchiostro indelebile, ma come si fa a sostenere che l’uscita di scena (?) di Geronzi apra scenari da sol dell’avvenire per la nostra economia, se non per compiacere i suoi avversari? Si dice: ma l’uomo è potente, spregiudicato, autoreferenziale, incline alla pratica del “con me o contro di me”. Vero. Non diversamente dai suoi detrattori, però. La differenza è che fino a ieri aveva vinto lui, ora hanno vinto gli altri.

Bene, palla al centro. Il duro scontro degli interessi è fatto così, non è un gioco di società o un tea delle cinque. E chiunque voglia attribuire ai protagonisti del gioco maschio la patente di buoni e di cattivi, o ci fa o ci è. E nell’uno come nell’altro caso, è privo di memoria. Perché sento dire – ahimè, anche dal mio caro amico Maccanico – che saremmo di fronte al recupero di centralità da parte di Mediobanca, che si sarebbe rimpossessata del perduto ruolo di azionista di riferimento della compagnia triestina.

Ebbene, andrebbe ricordato che quel pacchetto del 13,5% che Mediobanca ha di Generali risale ad una società, Euralux, rimasta per anni il più fitto mistero della finanza nostrana, e che solo quando tutto era ampiamente prescritto si scoprì essere il frutto di fondi riservati che Cuccia e Maranghi – “nonno” e “padre” degli attuali amministratori di Mediobanca – gestirono d’intesa prima con André Meyer e poi Michel David-Weill e Antoine Bernheim (sì proprio quello che ha lasciato, con malriposte polemiche, il posto a Geronzi un anno fa) di Lazard.

Titoli che, guarda un po’ gli scherzi della storia, furono “italianizzati” anche grazie alla Finsai International di quel Salvatore Ligresti che è stato uno dei motivi dello scontro a Trieste (e anche nei palazzi romani) per via del tentativo (bloccato dalla Consob) di evitarne il default attraverso i due soci francesi di Filodrammatici, Bolloré (sostenitore di Geronzi in Generali, di cui è vicepresidente) e Groupama. Vicende passate, si dirà. Vero.

E Geronzi non è Merzagora, il potente democristiano massone ex presidente del Senato che perse la poltrona di numero uno di Generali dopo 11 anni di regno proprio in quel 1979 in cui a Parigi si scrissero i patti di sindacato che stabilirono la pluriennale influenza di Mediobanca e Lazard sulla ricca compagnia del leone alato.

Ma è pur vero che ciascuno è figlio di una storia, e rivendicare primogeniture può rivelarsi velleitario. In particolare da parte di chi pretende di chiamarsi fuori dalla modalità “relazionale” del nostro capitalismo, che è caratteristica di tutti, compresi quelli che demonizzano i “salotti buoni” solo perché vorrebbero promuovere il tinello di casa loro. Ma c’è una questione più importante.

Geronzi declina perché non c’è più (da tempo) quel modello di sviluppo che si basava su Stato pervasivo, politica forte e grandi famiglie ricondotte a unità da Cuccia. Pieno di difetti, okay, ma aveva una solida coerenza. Il fatto è che si è imputato all’ex presidente delle Generali di voler riproporre quello schema, proprio mentre il ministro Tremonti (cui si attribuisce frettolosamente la regia della vicenda solo per l’asserita rivalità con Letta, amico di Geronzi) tenta, con i mezzi di oggi ovviamente, di ricostruire un giusto equilibrio tra Stato e mercato e invoca le operazioni di sistema dopo anni di ubriacatura liberista.

Ma i conti non tornano più quando gli stessi che aggettivano come “epocale” la caduta di Geronzi arricciano il naso di fronte al nuovo ruolo da dare alla Cdp, alla rivalutazione delle Fondazioni nel sistema bancario o alle mosse “protezionistiche” su “campioni nazionali” come Edison e Parmalat.

Cioè di fronte ad un disegno che, giustamente e finalmente, torna a mettere al centro dell’azione politica, il recupero dello stato-nazione nella competizione economica globale. Il quale, però, per essere realizzato ha bisogno di interessi economici coesi, non impegnati in guerre intestine.
Insomma, non c’è da rimpiangere Geronzi, ma da sapere che senza di lui il capitalismo nostrano sarà uguale a prima. E che il problema italiano non sono i “poteri forti” ma la debolezza dei poteri.

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