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Lo stato dell’economia mondiale

Più Stato, più mercato, più Europa

Per affrontare il nuovo paradigma economico-politico serve una triplice ricetta

di Enrico Cisnetto - 06 novembre 2008

“Dio è morto, il capitalismo è morto e anch’io non mi sento tanto bene”. Si potrebbe cominciare così, parafrasando Woody Allen, un’analisi del dopo-crisi finanziaria, quella partita nel luglio del 2007 con l’esplosione della bolla immobiliare e il conseguente fallimento del mercato dei mutui subprime, cui ha fatto seguito la discesa verticale dei corsi di Borsa e il crack di alcune banche, prima di tutto americane, che a sua volta ha generato una grave crisi di liquidità. Di fronte alla violenza, alla dimensione e alla velocità con cui si sono manifestati questi fenomeni, si è parlato di “recessione mondiale”, di “crisi come quella del 1929”, se non addirittura più grave, di “spettro della miseria” incombente, di “fine del capitalismo”. Ma, soprattutto, si è diagnosticato il fallimento della globalizzazione, individuata da questa sorta di “partito nichilista” come la vera causa di tutti i mali odierni, e si è preconizzato un suo tanto necessario quanto probabile superamento. Tuttavia io non condivido questa diagnosi infausta. Stando a coloro che l’hanno formulata, tra l’altro, la recessione avrebbe dovuto esserci negli Stati Uniti già da un paio di anni, e la crescita mondiale quest’anno avrebbe dovuto arrestarsi. Invece non è così. Finora il trasferimento della crisi finanziaria all’economia reale è stato parziale e circoscritto al terzo trimestre 2008. E lo sviluppo dell’Asia, e in misura minore del Brasile, assicurerà al pil mondiale un tasso di crescita per quest’anno e probabilmente per l’anno prossimo di almeno il 3%. Questo non significa, naturalmente, che non sia successo niente, o che si tratti solo di cattiva congiuntura.

Siamo certamente di fronte ad un passaggio paradigmatico, che conclude una stagione contrassegnata in economia dall’uso eccessivo del debito e in politica dalla primazia, militare e strategica, degli Stati Uniti. Ciò non vuol dire che sparirà il debito e che gli Usa saranno marginali, ma “semplicemente” che si delineerà una situazione più equilibrata e aperta. In sostanza, il modello di sviluppo vedrà una rivalutazione dell’economia reale – la produzione e commercializzazione di beni materiali e l’offerta di servizi ad essa funzionali – e un ritorno della finanza all’originario ruolo di supporto dell’attività economica. Dunque, basta con lo sviluppo basato sui consumi a debito delle famiglie, su un’eccessiva sottocapitalizzazione delle imprese grazie al merito di credito tendente a zero, sull’uso eccessivo della leva finanziaria da parte delle banche, sulla creazione di finanza sintetica neppure più basata su modelli matematici, sul debito-monstre degli Stati. Così come, sul fronte geo-politico, non più unilateralità americana, ma creazione di un nuovo ordine mondiale, basato su un maggiore equilibrio di forze non solo all’interno del vecchio quadro occidentale, ma anche in relazione alle aree del mondo che in questo momento, e presumibilmente in modo crescente nei prossimi anni, contribuiscono di più alla formazione della ricchezza mondiale.

Il primo banco di prova della “new-new economy”, presumibilmente, sarà la creazione di un nuovo sistema monetario, che chiameremo Bretton Woods III giacché la seconda esiste già – di fatto, anche se non formalmente – e si è sviluppata dall’inizio del secolo con i paesi asiatici che hanno seguito la stessa strada percorsa da Europa e Giappone nel dopoguerra, quando il “gold exchange standard” prevedeva che tutte le monete facessero riferimento alla valuta Usa (a sua volta legata all’oro), e ciò ha permesso al Vecchio Continente e al Giappone una rapida ricostruzione industriale trainata dalle esportazioni, in cambio della quale essi si impegnavano ad utilizzare il biglietto verde come moneta di riserva e ad investire in bond. E una grande riforma dei cambi, che non si limiti a fotografare l’esistente ma che abbia il coraggio di uno scatto in avanti, si può realizzare solo affiancando al dollaro altre divise forti. Oltre all’euro, magari dopo che avrà inglobato sterlina inglese e franco svizzero, anche tre nuove monete che sarebbe opportuno nascessero in fretta: una valuta asiatica in cui convergano Cina, India, Corea del Sud e Giappone; una valuta del Golfo, che raduni i maggiori paesi petroliferi; una valuta del Mercosur. Tutte armonizzate in una sorta di “serpente monetario” mondiale che realizzi un sistema policentrico.

D’altra parte, siamo obiettivi: se guardiamo i trend di crescita attuali vediamo che nel 2007 i paesi “maturi” (Usa, Giappone, Germania, Francia, Spagna, Uk, Italia, Canada e Paesi Bassi) hanno rappresentato il 62% del pil mondiale ma hanno contribuito solo per il 38% alla crescita della ricchezza. Al contrario dei cosiddetti “Bric” (Brasile, Russia, India e Cina) – che sono solo l’11,5% del pil mondiale ma hanno un ritmo di crescita del 22% – e dei paesi della futura moneta asiatica, che contano per il 19,1% ma crescono per ben il 24,7%. Dunque, tenuto presente che il flusso conta molto di più dello stock, è chiaro che un regime monetario solo euro-atlantico non avrebbe ragion d’essere. E che se per riscrivere le regole toccherà rileggere il Keynes visionario del 1944 che proponeva un “paniere” composto di tutte le valute del mondo, questo vorrà dire che non meno fantasia servirà per fissare una sorta di “nuova Yalta” anche per definire la governance del mondo globale.

Ma se cambia il quadro geopolitico, è vero altresì che per la prima volta almeno dalla pubblicazione del Capitale di Marx (1867) è il capitalismo stesso a trovarsi sotto accusa. Dopo un trentennio in cui il liberismo e la Scuola di Chicago hanno fatto sempre più accoliti, adesso pare evidente che la famosa mano invisibile di smithiana memoria non è più in grado di regolare alcunché. Siamo diventati tutti neo-keynesiani, dunque. E alcuni, con l’ardore dei convertiti dell’ultima ora, pretenderebbero di tornare alle politiche di deficit spending, alla sregolatezza fiscale, al pluricitato assunto keynesiano secondo cui si può indebitare finché si vuole, dato che “nel lungo periodo siamo tutti morti”. Calma. E’ chiaro che a questo punto serve un distinguo: da parte mia, che in questi anni non ho mai fatto mancare la mia voce critica contro i teorici del liberismo sfrenato, credo di potermi permettere ora una critica in senso opposto.

Attenzione, dico, perché essere keynesiani (o meglio neo-keynesiani, poiché la storia non si può ripetere due volte, altrimenti si passa alla commedia, per dirla marxianamente) non significa oggi tornare alle partecipazioni statali o alle “banche di interesse nazionale”: anche perché – specie nel caso italiano – oggi l’interesse nazionale bisognerebbe prima trovarlo. Né significa entrare nel capitale delle aziende o “rottamare” per sovvenzionare questa o quest’altra impresa. Essere neo-keynesiani oggi – lo dice uno che lo è stato tutta la vita, keynesiano, pur con i dovuti distinguo, necessari non fosse altro per i diversi moneti storici – significa da parte della Politica assumersi la responsabilità di dare un indirizzo strategico allo sviluppo del Paese, individuando le linee guida lungo le quali far camminare l’economia. In concreto? Politica dei settori oltre che quella dei fattori della produzione; utilizzo della leva fiscale come incentivi e disincentivi che indirizzino gli imprenditori verso scelte di utilità generale (aziende più grandi e più capitalizzate, comparti produttivi a maggiore valore aggiunto e intensità di innovazione tecnologica). Dunque, sì allo “Stato decisore” e no allo “Stato Caritas”: il che non significa rinunciare a grandi investimenti pubblici, anzi: un piano di grandi opere – manovra espansiva per eccellenza – avrebbe anche, nel caso italiano, il vantaggio indubbio di colmare un gap strutturale trentennale che ci attanaglia. Ma l’occasione qui è buona anche per dire una parola di verità su esperienze passate che con troppa fretta sono state gettate nell’immondizia della storia. Parlo in particolare dell’Iri: un modello tanto vituperato quanto recuperato, negli ultimi tempi, almeno dalle leadership più evolute del Vecchio Continente. Basta pensare al “proclama di Annecy”, la località in Alta Savoia da cui il presidente francese Sarkozy ha annunciato il mese scorso un piano di stimoli all’economia e la creazione di un maxi-fondo sovrano. Un’esperienza che più che i vari fondi sovrani dei petrodollari – i vari Temasek (Singapore), Cdb (Cina), Qia (Emirato del Qatar) – ricorda da vicino il vecchio istituto di Alberto Beneduce (meno l’ultima Iri, quella di Prodi).

Nonostante alcuni eccessi e sviluppi deteriori di quel modello (i boiardi di Stato e il combinato disposto della socializzazione degli oneri e della privatizzazione dei profitti, tipici della sua ultima fase), per molto tempo esso rappresentò un unicum apprezzato e studiato all’estero. Il “sistema Beneduce” aveva il fine di salvare il sistema bancario e industriale italiano paralizzato dalla crisi, prevedeva la separazione fra banca e imprese industriali, con la partecipazione diretta dello stato al capitale di controllo delle imprese (che sarebbero però rimaste società per azioni, continuando quindi ad associare, in posizione di minoranza, il capitale privato). La gestione di esse era improntata a un criterio rigidamente privatistico di efficienza regolata dal mercato. Inoltre lo Stato si riservava un ruolo di indirizzo dello sviluppo industriale, ma non di gestione diretta: infatti, non si trattava di un processo di nazionalizzazione, ma di una serie di interventi finalizzati al salvataggio e al sostegno finanziario di singole imprese, o, in qualche caso, alla creazione di nuove attività con cui i privati stentavano a misurarsi. La proposta Sarkozy oggi è innovativa perché prevede di costituire in tutta Eurolandia una serie di fondi gemelli che dovrebbero coordinarsi in chiave difensiva verso l’estero, affrontando senza ipocrisie la sfida dimensionale a cui le decotte economie nazionali del Vecchio Continente sono sottoposte da almeno un ventennio. E’ inutile e dannoso continuare a pensare, infatti, in termini di interessi e di campioni nazionali, se – Italia per prima – non ci rendiamo conto che la sfida è quella di creare dei player in grado di confrontarsi sugli scenari globali. La ricetta è quella che va nella direzione di “più mercato” e insieme “più Stato”.

Più mercato nel senso di allargare la concorrenza, proseguire nelle privatizzazioni e liberalizzazioni, aumentare la tutela del risparmio e la trasparenza degli scambi con regole più stringenti. Più Stato, nel senso di più Europa. Un’Europa che deve essere intesa non solo come “buco nero” delle in-decisioni, come regolatore sovranazionale non calato nello specifico, ma che deve diventare un grande centro propulsore di strategie e politiche (economiche) verso l’interno, e al contempo attore in grado di poter contare di più nella riscrittura della governance globale, punto quest’ultimo su cui è evidente la necessità nel momento in cui lo stesso paradigma del capitalismo internazionale deve darsi nuove regole del gioco. Più Stato, più mercato, più Europa, dunque. Questa è la strada – l’unica possibile – per affrontare il nuovo paradigma economico-politico senza cadere in facili manicheismi. Una terza via è possibile, dunque. Lo avevano già intuito, con grande pragmatismo, statisti italiani come Alcide De Gasperi e Ugo La Malfa. Adesso spetta a noi riprende e continuare il loro cammino.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.