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Campagna elettorale non stop

Pistola sul tavolo

Il problema non sono i partiti che sventolano le loro bandierine, ma la capacità del premier e dei ministri di imporre le proprie scelte.

di Enrico Cisnetto - 17 maggio 2013

Un governo di grande coalizione può essere tre cose. La più banale: può rappresentare un cerotto emergenziale applicato ad uno stato di necessità eccezionale. È utile a tamponare, ma poi serve altro. La più utile: può realizzare tutto quello che le coalizioni contrapposte non sono state in grado di fare da sole, per poi ridare a ciascuna lo spazio della propria diversità, non prima però di aver creato una condivisione su alcuni temi essenziali, a cominciare da quello della comune riscrittura delle regole. La peggiore: è soltanto lo strumento per la sepoltura di una stagione politica, nella più piena incognita di quel che verrà dopo. Il governo Monti è stato questa terza cosa – ed è la colpa più grande che io gli attribuisco – peraltro senza neppure riuscire a completare la tumulazione della Seconda Repubblica. Facciamo finta che il problema stesse a monte, nel suo essere un esecutivo tecnico, e archiviamo la questione, accontentandoci del fatto che abbiamo superato l’emergenza spread.

Ora, però, il tema si ripropone con il governo Letta. E qui ha ragione (come quasi sempre) Michele Salvati: se i due partiti ex (?) nemici non capiscono che la situazione dell’Italia è drammatica perché rischiamo non il default finanziario ma quello produttivo e sociale, e che questo non è il momento di mettere pezze ad un tessuto che si è già strappato, bensì di ricostituirlo con scelte strategiche di portata non minore di quelle che il Paese seppe fare nel dopoguerra, il governo o rischia di saltare subito o di trascinarsi penosamente finendo poi col consuntivare un risultato peggiore di quello di Monti.

L’antidoto lo indica lo stesso Salvati, e combacia con quanto vado dicendo fin da prima che Napolitano desse l’incarico: per uscirne vivo, il governo deve usare in modo risoluto e spietato l’arma del ricatto. Che non consiste tanto e solo nella minaccia di andarsene, quanto in quella che il Capo dello Stato si dimetta, riaprendo quella drammatica fase di crisi istituzionale che soltanto la (tardiva) richiesta di un bis ha potuto tamponare. Tradotto significa che Letta non deve attivare la mediazione preventiva sui singoli provvedimenti – che pure è nelle sue corde – bensì mettere la sua “larga” maggioranza di fronte a scelte coraggiose e non di parte, cioè quelle che centro-destra e centro-sinistra da soli non sono riusciti a fare in vent’anni di bipolarismo, dicendo o così o altrimenti io e Napolitano lasciamo. Ben sapendo che il Pd, già scheggiato come un vetro ripetutamente colpito, non può permettersi di perdere i due “suoi” presidenti, salvo andare in frantumi in modo definitivo e irrimediabile. E ben sapendo che il Pdl non può correre il rischio né di ritrovarsi un Rodotà o un Prodi al Quirinale né di andare al voto e portare a casa, a parti rovesciate con il Pd, una vittoria di Pirro perché al Senato non ha la maggioranza.

Questo significa evitare di infognarsi nel tira e molla su provvedimenti tampone. Anche perché una volta messa a posto – ammesso e non concesso – l’Imu, la cassa integrazione in deroga e il pagamento dei debiti arretrati delle pubbliche amministrazione, puntualmente spunteranno fuori altre emergenze, in una spirale senza fine. E se, come si è già visto, la fatica a far passare un provvedimento tampone è la stessa che a giocarsi la carta di una riforma organica, tanto vale alzare la posta. Il problema non sono i partiti attardati a sventolare le loro bandierine – se non fossero la pochezza che sono, non ci troveremmo in questa situazione e loro non avrebbero perso complessivamente più di sei milioni di voti a favore di Grillo e dell’astensionismo – bensì la capacità, anzi, direi prima di tutto la forza di carattere, del premier e con lui dei ministri più importanti e qualificati, di non badare allo sventolio e di imporre le proprie scelte. Per esempio, perché spaventarsi della discussione su Berlusconi eventuale presidente della Convenzione per le riforme istituzionali e dei singulti parlamentaristici per la composizione della stessa? Una volta fatta questa scelta e ribadito che a istituirla sarà una legge costituzionale in modo che abbia funzione redigente e il Parlamento poi debba solo dire si o no in blocco alle modifiche apportate alla Costituzione, non ha senso scendere al compromesso di far comporre la Convenzione dai membri delle commissioni parlamentari (salvo poi prevedere la figura di non meglio identificati consulenti). Stesso principio per la politica economica: si facciano pure decreti sulle urgenze, ma contemporaneamente si predispongano due leggi quadro sul taglio strutturale della spesa pubblica corrente (non la spending review, sia chiaro) e sulla valorizzazione finanziaria del patrimonio dello Stato e degli enti locali, da cui si trarranno le risorse vere per manovre di crescita e di rilancio vere.
Il tempo è poco, la pistola deve essere ben visibile sul tavolo.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.