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Un danno enorme per il capitalismo italiano

“Piccolo è brutto”

Quando la litania del micro diventata segno di colpevole ignoranza

di Enrico Cisnetto - 13 ottobre 2009

In un paese dove il 97% degli oltre 5 milioni di sue imprese sono sotto i 10 dipendenti, non c’è da stupirsi se l’attenzione verso gli imprenditori piccoli e piccolissimi sia particolarmente alta. E’ dai tempi in cui il Censis inventò la definizione “piccolo è bello” che se ne tessono le lodi, indicandoli di volta in volta come la “spina dorsale del paese” piuttosto che la “borghesia del fare” contrapposta al ceto parassitario dell’impresa assistita e protetta.

Di solito sono i politici di mezza tacca a sperticarsi nei peana, sicuri di pescare consenso in un bacino assai vasto. Ma anche la Confindustria negli anni non ha mancato di magnificare quella che poi è la sua base, cui peraltro ha continuato a mantenere un recinto, quello della Piccola Industria, che è nato per aumentarne la rappresentanza ed è finito da subito per essere un ghetto. Anche molti economisti, o presunti tali, non solo si sono spellati le mani ad applaudire questa “parte sana” del sistema economico, ma hanno anche decantato le virtù del modello di sviluppo all’italiana, quando non addirittura ne hanno teorizzato la superiorità rispetto agli altri, dal renano all’anglosassone.

Ora, che questo avvenisse negli anni Ottanta, in pieno boom del made in Italy e ben prima della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica, poteva essere comprensibile e in una certa misura giusto. E l’iniziale, positivo, sviluppo dei distretti industriali, rendeva ancor più logica quella tendenza. Ma che questa litania del micro, dell’imprenditorialità diffusa, ma soprattutto della strategicità delle “partite Iva”, sia continuata negli ultimi due decenni, a fronte di una lunga fase di stagnazione che è stata la conseguenza della perdita di produttività e competitività del nostro sistema produttivo, beh questo è segno di colpevole ignoranza.

E che tutto ciò avvenga ancora oggi, addirittura con accenti ancor più forti, nel pieno della recessione che la “grande crisi” mondiale ha prodotto, è imperdonabilmente grave. Eppure è quello che la cronaca ci segnala ogni giorno. Come nel caso dell’appuntamento di Vergiate, nel varesotto – non casualmente organizzato dalla Lega che del fenomeno micro si è fatta più di altri paladina – dove quelli che il mio amico Di Vico ha definito gli “invisibili” non solo sono stati esaltati per il fatto stesso di essere minuscoli, ma sono anche stati utilizzati (strumentalizzati?) per “vendere” al Paese che il vero problema che ha di fronte sono le banche e la loro (presunta) indisponibilità a concedere credito.

Operazione che s’inquadra in una più vasta tendenza a demonizzare (presunti) “poteri forti”, fino al punto di ipotizzare l’esistenza di un complotto per rovesciare il Governo. Infatti, tutto si tiene: da un lato ci sarebbero le élite parassitarie – come variamente le hanno declinate Sacconi e Brunetta, per esempio – che diventano sovversive per mantenere i loro privilegi a fronte di un regime politico intenzionato a tagliar loro le unghie, élite che nello scenario di Berlusconi si saldano con tutti i suoi avversari o soltanto critici, ma che il premier considera automaticamente nemici dediti al complotto, e che di volta in volta si annidano nella stampa, nella magistratura, nelle istituzioni e nelle imprese e banche “non allineate”; dall’altro lato, c’è il “popolo del fare”, al quale le élite vengono offerte in pasto come responsabili di tutto ciò che di negativo accade nel paese.

Per cui Berlusconi è il miglior premier di tutti i tempi non solo per quello che riesce a fare – che di solito è il fronteggiare le emergenze, cosa ovviamente non disprezzabile ma certo non esaustiva di una leadership che dal 1994 sta vivendo il suo ottavo anno di governo – ma anche perché è costretto a fronteggiare chi vuole morto lui e chi intende impedire la sua “rivoluzione liberale”. Naturalmente, è vero che esistono gli uni e gli altri, ma in parte è fisiologico che sia così, e la bravura di un politico, o se si vuole ciò che separa uno statista da un apprendista, sta proprio nell’esserne cosciente e avere la capacità di imporre la propria strategia.

E in parte ciò che ha superato la fisiologia per diventare patologia – il cosiddetto “anti-berlusconismo” – finora è stato un formidabile strumento di acquisizione di consenso per la “vittima”. Si tratta, cioè, di situazioni che non giustificano per nulla la povertà dei risultati, specie sul piano della grandi riforme strutturali, dei governi Berlusconi.

Ma non è di questo, così come non è dell’imbecillità di una sinistra che ha regalato al giustizialismo e all’anti-politica (non a caso le armi berlusconiane al tempo della “discesa in campo”) la sua rappresentanza, che intendevo parlare quando mi sono incamminato sulla strada della critica alla retorica del piccolo e del locale contrapposta alla demonizzazione del grande e del globale. Quello che conta è riflettere sulle conseguenze che l’esercizio di questa retorica ha già prodotto, nel recente passato, a cominciare dalla demonizzazione delle grandi imprese – basata sulla loro equivalenza con la corruzione (ricordiamoci i tempi di Tangentopoli), lo statalismo deteriore (la definizione “boiardi di Stato” dice qualcosa?), il prosciugamento delle sovvenzioni pubbliche (per esempio gli incentivi per la Fiat, che peraltro sono continuati), l’inquinamento (equivalenza che ci ha fatto perdere interi settori, come la chimica) – che a sua volta ha prodotto la scomparsa, per chiusura o per emigrazione all’estero, di grandissima parte delle nostre imprese over-size.

Un danno enorme per il capitalismo italiano, specie sotto il profilo della ricerca e dell’innovazione, che è stato costretto a livelli tecnologici incompatibili con i paradigmi della competizione mondiale. Ora tornano gli slogan contro i grandi poteri – magari ce ne fossero, saremmo meno in crisi! – e concentrano gli strali verso le banche, sulle quali fa comodo a molti scaricare la responsabilità della recessione, o di una lesta uscita da essa: al governo, che ha adottato il “tiro al banchiere” sia come strumento di acquisizione di facile consenso sia come “fuoco di copertura” per mettersi al riparo dalle critiche, ma anche alla Confindustria, cui urgeva trovare un “nemico comune” per evitare che il conflitto tra interessi troppo diversi, in particolare tra chi già ce l’ha fatta e chi non ce la farà mai a salvarsi dalla crisi, finisse per diventare esplosivo (ed è probabile succeda ugualmente).

Sia chiaro, in questo gli uomini del credito – quelli ultra-conservatori del “quieta non movere” (i vertici delle banche popolari, in primis) e quelli ultra-moderni fin troppo orientati al mercato – ci hanno messo del loro, con errori, omissioni, ma soprattutto con l’incapacità di fare sistema e di adottare politiche d’immagine capaci di evitare il pubblico disprezzo a cui sono stati esposti. Tuttavia, non credo esista paese al mondo dove la classe dirigente abbia promosso, o comunque tollerato, un simile “gioco al massacro”.

Di sicuro non esiste governo al mondo che nel corso della crisi abbia deciso di aiutare le banche per poi “spingere” quel finanziamento fino al punto di divedere gli istituti che vi fanno ricorso e quelli no in “buoni e cattivi”. Il fatto è che tutto questo, in un capitalismo “banco-centrico” come il nostro, rischia di produrre un danno enorme. Di cui, come nel caso delle grandi imprese industriali, ci si renderà conto solo quando sarà troppo tardi. E siccome in gioco c’è la pelle del Paese, è bene che queste cose si dicano senza reticenze.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.