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Public Policy

Considerazioni sul manifesto delle pmi

Piccolo non è per niente bello

Servirebbe invece una politica industriale a favore della grande impresa

di Enrico Cisnetto - 28 luglio 2006

Un “manifesto” per le piccole imprese, sottoscritto a fatto proprio dalla politica e dalla classe dirigente italiana. La proposta è autorevole, perché viene dal direttore del Sole 24 Ore, Ferruccio de Bortoli. Ed è ottimamente argomentata: in Italia la cultura d’impresa è fragile, gli italiani considerano solo i vantaggi ma non i costi della modernità e il sistema pubblico è molto più vessatore che agevolatore. E siccome in Italia la quasi totalità delle imprese - da 4,5 a 6 milioni, a seconda delle statistiche - sono piccole o addirittura micro, ecco che per dare a valori come competizione e mercato pari dignità rispetto a quelli assai più diffusi e considerati di equità e solidarietà, occorre una bandiera sotto cui far marciare il cambiamento della mentalità collettiva. Condivido la finalità e lo strumento, ma non l’oggetto della proposta di de Bortoli. Non è un manifesto a favore della piccola impresa che occorre scrivere, ma a favore della grande impresa. Proprio perché le osservazioni del direttore del Sole sono più che fondate, occorre dirci con schiettezza che nell’immaginario collettivo non è l’azienda di piccole dimensioni, a conduzione familiare, ad essere avversata. Una volta era così, ma dalla marcia dei quarantamila del 1980 e dalla presidenza di Vittorio Merloni in Confindustria (1980-84) in poi la preclusione ideologica - cattocomunista - verso il capitale e il profitto si è fortemente attenuata, proprio a beneficio dell’impresa diffusa, considerata meno invasiva della grande (altra cosa sono i cosiddetti “poteri forti”, verso i quali la contrapposizione ideologica è compensata dalla voglia di appartenenza e dalla ricerca di protezione, specie nei confronti di quei poteri che hanno avuto l’astuzia di collocarsi a sinistra).
Certo, la resistenza alle liberalizzazioni, i costi burocratici per metter in piedi e per gestire un’impresa, le rigidità del sindacato, la mancanza di infrastrutture, la mancanza di una politica energetica sono problemi e vincoli che riguardano tutti gli imprenditori, così come i loro non pochi limiti, a cominciare dal pervicace individualismo. Ma non c’è un rifiuto sociale della piccola impresa e della figura del suo “padrone”, mentre verso l’impresa più grande - considerata più inquinante, più potente e arrogante - c’è un vera e propria repulsione. Peccato, però, che proprio di imprese grandi, o comunque molto più grandi di quelle attuali, abbia un bisogno estremo il nostro fragile capitalismo. Ed è dunque verso di loro che occorre concentrare attenzione e sforzi. Sì, facendo crescere e aggregando le piccole aziende che già abbiamo, ma soprattutto creando i presupposti - di scelte e di strumenti di politica industriale - perché se ne creino di nuove già dotate di size sufficienti.
Ma siccome le pre-condizioni per arrivare a questo obiettivo sono anzitutto di natura culturale, non solo è inutile, ma addirittura dannoso continuare ad esaltare - in un modo o nell’altro, penso per esempio alla mistica dei “distrettini” e delle nicchie tipo “strano ma vero” decantata dal buon Aldo Bonomi - la teoria del “piccolo è bello”. Lo sforzo di definire per via antropologica il cosiddetto “capitalismo di popolo”, esaltandone la specificità tutta italiana, non solo produce aborti sociologici (i microcosmi, la molecolarità) e culturali (le antistoriche specificità territoriali, la peggior attrezzattura possibile per affrontare la globalizzazione) ed errori politici (il federalismo straccione e il bipolarismo forzato), ma contribuisce di fatto alla teoria del “grande è brutto, sporco e cattivo” già fin troppo diffusa, oltre che al rafforzamento di quella mentalità qualunquista dell’anti-politica che ci ammorba dal 1992. L’Italia, caro de Bortoli, ha bisogno di ripensare il proprio modello di sviluppo, e di conseguenza le caratteristiche e gli assetti del suo capitalismo. Si tratta di una scelta “politica” - forse quella più alta che una democrazia rappresentativa capace di assumersi le responsabilità possa e debba fare - non della risultante delle singole volontà espresse sul mercato.
Anche perché se così fosse, non saremmo nel pieno di un declino strutturale bensì dentro una creativa fase di transizione, ricca di fermenti e spinte al cambiamento. Invece soffriamo del problema opposto: una pervicace, ottusa voglia di conservare quello che c’è, nell’illusione che lo stato di benessere conquistato dal dopoguerra in poi possa perpetuarsi all’infinito. Allora, impegniamoci per sdoganare i veri tabù che frenano i processi di modernizzazione: il ruolo della politica (e in essa dei partiti), lo spazio per l’intervento pubblico (chi le realizza le infrastrutture, il signor Brambilla?), la concezione frenante del controllo antitrust (chi ci ha guadagnato togliendo le genco all’Enel, chi guadagnerebbe togliendo il gas all’Eni?). Parola di liberale. Pubblicato sul Foglio del 28 luglio 2006

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