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L'autolesionismo che blocca lo sviluppo del Paese per eccesso di burocrazia

di Enrico Cisnetto - 11 agosto 2013

La ripresa non c’è. Ancora. Non c’è quella reale, visto che per ora i dati sono parziali e spesso contraddittori. E tantomeno c’è quella “percepita”, considerato che la crisi è entrata nella testa e nella quotidianità degli italiani ben più di quanto essa valga in termini economici. Per adesso, insomma, ci sono segnali di rallentamento della recessione, non di un’inversione di tendenza vera e propria. E se non vogliamo commettere l’errore, per l’ennesima volta, di sovrastimare la congiuntura – pur a fin di bene, cioè per infondere fiducia a un paese rassegnato – e illuderci che qualcosa (la buona stella) o qualcuno (l’Europa, l’economia mondiale) ci stia tirando fuori da guai a prescindere dal nostro impegno, faremmo bene ad evitare di correre dietro alle “lucciole in fondo al tunnel” (lo fece Monti e ci ha regalato un altro anno di recessione e altri due punti di pil andati in fumo). Come ha scritto con la consueta efficacia Franco Bruni (La Stampa 7 agosto), siamo a un passo dalla ripresa, ma quel passo dobbiamo assolutamente farlo. E non è un “piccolo passo”, come sembra pensare (giudico da come agisce) il governo Letta. Bensì, tanti passi decisi e coraggiosi nella doppia direzione delle riforme strutturali interne e della negoziazione di alcune scelte in Europa. Di cosa si tratti, tra le tante priorità, l’ho scritto qui la settimana scorsa per l’ennesima volta, sarebbe pedante ripeterlo.

Invece, prendendo spunto da Bruni, voglio aggiungere una questione che contribuisce in modo decisivo alla crisi – tanto a quella racchiusa nei dati Istat quanto a quella “percepita” – il cui superamento rappresenterebbe un formidabile incentivo alla ripresa: parlo di quel comportamento e sentimento diffuso che potremmo definire “autolesionismo nazionale”. La cronaca è piena di esempi, ne prendo alcuni a caso. Uno: la polemica sull’accesso delle grandi navi da crociera nella laguna veneziana, e sul Mose. Ci mancava Celentano – magnificamente apostrofato dall’ottimo presidente del Porto di Venezia, l’ex sindaco Costa – ad alimentare la canea dei catastrofisti, convinti che la millenaria città di Marco Polo stia per essere sepolta sotto i colpi di questi mostri del mare. Gli stessi, naturalmente, che non vogliono il Mose, cioè lo strumento che può davvero salvaguardare la laguna dalle maree, e che hanno subito rialzato la testa per l’inchiesta della magistratura (appena partita e che comunque con l’opera in sé non ha nulla a che fare) nel tentativo di fermare i lavori che hanno già raggiunto il 75% del totale. Non è solo una questione ideologica o d’immagine: in ballo ci sono il turismo e i 5 miliardi già spesi per il Mose. Due: la decisione dell’Italcementi di chiudere lo stabilimento di Monselice, dopo che gli ambientalisti hanno osteggiato il piano di ammodernamento del cementificio, in contrasto con i dipendenti che hanno persino deciso di promuovere una class action contro di loro per il danno di 400 posti di lavoro andati a ramengo. È solo l’ultimo esempio di come non solo da noi sia praticato un ambientalismo oscurantista e beota ma soprattutto di come esso, pur essendo stra-minoritario, riesca a prevalere, bloccando tutto e tutti. Tre: i controlli plateali agli scontrini fiscali che puntualmente si ripetono nei giorni di vacanza. Ho visto i dati sulle entrate tributarie da recupero di evasione nel primo semestre 2013, e ho scoperto che, pur essendo aumentate del 9,9% (ottima percentuale), in valore assoluto si tratta di un incremento di 329 milioni, che porta il totale a 3 miliardi e 655 milioni. Supponendo che il secondo semestre vada ancor meglio, alla fine consuntiveremo, se va bene, 7,5 miliardi con un maggior recupero rispetto al 2012 di 700 milioni. Ora, considerato che l’evasione viene calcolata in circa 120 miliardi l’anno, siamo sicuri che il gioco valga la candela? Lungi da me la retorica del fisco onnivoro che giustifica l’evasione. Ma è evidente che i consumi e gli investimenti che questa “pressione” da controlli, psicologica prima ancora che pratica, finisce per bloccare, sono molti di più dell’evasione recuperata.

Mi fermo qui. Gli esempi dell’italico autolesionismo che blocca lo sviluppo – per cultura anti-moderna, per eccesso di burocrazia, per sacrificio della certezza del diritto – sarebbero infiniti. Ma è bene che i cultori della “ripresa c’è” o della “luce in fondo al tunnel”, sappiano che se vogliono che il saldo tra quanto produce l’Italia che corre e non ha mai smesso di farlo, e quella che è ferma o arretra, smetta di essere negativo (e lo sarebbe anche con il pil a più zero virgola), devono sporcarsi le mani anche con queste “anormalità”. Oltre che con le grandi riforme.

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