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Le riforme che servono al Sistema-Paese

Piaccia o no l’Italia è in ritardo

Malgrado le apparenze, il declino è ancora una realtà. Non è disfattismo. Parlano le cifre

di Enrico Cisnetto - 23 febbraio 2007

No, caro Foglio, ti sbagli, in giro un “declinista” ancora c’è. Ebbene sì, mi auto-denuncio a costo di apparire l’ultimo dei giapponesi ancora in guerra (o Filippo Facci che protesta perchè non lo lasciano fumare in faccia al prossimo): resto dell’idea che siamo in pieno declino. E che per uscirne – approfittando di una crisi di governo salutare, ancorché tardiva – non servono né un Prodi-bis, né un allargamento della maggioranza di centro-sinistra, né tantomeno nuove elezioni coltivando la speranza di poter continuare l’assurdo gioco dell’alternanza tra coalizioni impotenti e candidati premier riciclati, ma serve un duraturo governo di larghe intese che faccia i cambiamenti strutturali capaci di produrre la vera ripresa economica. Già, qualche mio lettore mi ha scritto rimproverandomi di aver sbagliato le previsioni, traendone l’idea che sarei affetto da “pessimismo congenito”. Ora vedo che il “partito degli ottimisti”, nelle cui file il Foglio milita dal tempo in cui faceva anticonformista dire “tutto bene”, si orienta sul ritorno alle urne, facendo presumere che la ripresa di oggi è figlia delle scelte politiche di ieri e che per protrarla bisogna riportare Berlusconi a Palazzo Chigi. Credo proprio che le cose non stiano così.

Cominciamo dall’economia. Non sta in piedi la tesi – purtroppo, mica ci godo – che i dati relativi alla produzione e al fatturato industriale, all’export e alla crescita del pil dimostrerebbero che il declino non c’è più, o addirittura che non c’è mai stato. Infatti, quello che conta non è registrare miglioramenti rispetto alle nostre precedenti performance, ma recuperare il gap – crescente da oltre tre lustri – con il resto del mondo, e, rispetto a qualunque parametro, il nostro differenziale con la media Ue è rimasto invariato (cioè negativo), e quello con Asia e Usa è aumentato a loro favore. Certo è meglio crescere del 2% anzichè dell’1,7% come programmato (e soprattutto dello zero dell’anno precedente), ma se gli altri vanno altrettanto o più veloci, la nostra corsa non serve. Inoltre, il merito del rimbalzo positivo del ciclo economico è soprattutto altrui, e questo lo rende precario e momentaneo. Non c’è dubbio, infatti, che l’accelerazione dell’economia italiana sia dovuta esclusivamente alla forte ripresa degli investimenti e dei consumi in Europa, e in Germania in particolare. Cosa dimostrata dal fatto che nel 2006 il pil tedesco è cresciuto del 2,7% (la stessa percentuale media di Eurolandia, con punte del 3,8% in Spagna). Le stesse previsioni Ue per quest’anno, enfatizzate come la certificazione della nostra ripresa, indicano ancora una differenza, perchè a fronte del nostro +2% la media dei paesi euro è indicata al 2,4% e quella dei Ventisette al 2,7%. Ma la contraddizione tra apparenza (la ripresa) e realtà (il declino) è mostrata dall’andamento del commercio estero, perchè nel 2006 siamo stati nella paradossale situazione di godere di un raddoppio del tasso di incremento del nostro export ma di dover anche registrare il peggior risultato della bilancia commerciale dal 1993. Questo perchè, da un lato, l’export cresce in valore e non in volumi – il che significa che solo una parte del nostro apparato produttivo si è riconvertita – mentre dall’altro siamo ancora troppo esposti ad un eccesso di import a prezzi alti, a cominciare dal settore dell’energia. Limiti, questi, che solo le grandi riforme strutturali possono farci superare.

E qui torniamo alla politica. Se quella che ho fatto è la vera fotografia della realtà – pur limitandomi ai dati usati in questi giorni da coloro che sono affetti dalla sindrome dell’ottimismo congenito, basterebbe parlare di tassi di produttività e di competitività, di struttura del capitalismo, di sistema formativo e di welfare per dimostrare il nostro deficit strutturale – ne consegue che il primo problema che il Paese ha è quello del sistema politico che non funziona (il declino non è mica figlio di nessuno, tantomeno della sfiga). E che per superare quel “bipolarismo bastardo” cui abbiamo dato stoltamente credito fin qui la crisi di governo è un’occasione d’oro. Basterà (si fa per dire) che il Presidente della Repubblica abbia il coraggio che l’età, il ruolo e la sua storia gli impongono di avere: perchè solo le riforme che solo una larga maggioranza – che faccia perno sulle componenti moderate e riformatrici di entrambi gli attuali schieramenti e che invece escluda a priori la sinistra massimalista e la destra populista – può fare, possono darci la vera ripresa economica e farci uscire davvero dal declino. Quella che si misura con la riduzione delle differenze che ci continuano e rendere ogni giorno sempre più marginali nel mondo globale.

Pubblicato su Il Foglio di giovedì 22 febbraio

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