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Class action: è ora che il Governo si esprima

Più tutela per i consumatori

Uno strumento di ammonimento e di stimolo necessario per combattere gli illeciti anti-trust

di Angelo De Mattia - 16 dicembre 2008

Al Presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà, non è piaciuto – e lo ha detto espressamente – l’intendimento, che si manifesta nel Governo, di prorogare ulteriormente l’entrata in vigore – stabilita prima nel 28 giugno e poi spostata al prossimo 1° gennaio – della legge sulla class action, l’azione collettiva risarcitoria a tutela dei consumatori. Ha dimostrato così il particolare interesse, ratione officii, che l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha nei confronti di una normativa che, consentendo di risolvere problemi di azionabilità collettiva in giudizio dei diritti di coloro che hanno subito danni in un rapporto contrattuale o extracontrattuale con le imprese, migliora l’efficienza dei mercati. Del resto, nella stessa relazione annuale sull’attività svolta nel 2008, l’Authority commentava ampiamente la legge sulla class action (che, come ricordato, avrebbe dovuto decollare il 28 giugno) sottolineando in diversi passaggi i giudizi positivi e la conformità agli auspici da essa espressi in tema di illeciti anti-trust.

Queste prese di posizione – opera di un organo che rappresenta la magistratura economica della concorrenza – sono esemplificative della vera natura della class action nel nostro ordinamento: una legge che deve costituire uno strumento di ammonimento e di stimolo perché società e banche migliorino decisamente i rapporti con la clientela, prevengano i rischi di danni ai consumatori, accrescano trasparenza e visibilità dei comportamenti, rafforzino la reputazione. E per conseguire queste finalità non si può che fare leva su di una maggiore efficienza e capacità competitiva, su di una più estesa affermazione della concorrenza: di qui, gli accennati benefici per il mercato.

Eppure, sarebbe intenzione di ambienti governativi non solo la proroga, ma anche la modifica della legge a suo tempo votata, prendendo spunto da un impianto non in tutte le sue parti ben riuscito. Ma i rimedi che si annunciano, secondo un testo circolato informalmente, sarebbero rammendi peggiori del buco. Attivare la class action diverrebbe assai più complicato. Verrebbe meno la prevista legittimazione degli organismi rappresentativi di interessi collettivi. Il magistrato giudicante, in sede di esame di ammissibilità della domanda, sarebbe dotato di ampi poteri discrezionali. I costi a carico dei soggetti interessati diventerebbero particolarmente rilevanti. Sarebbero individuati i tribunali competenti a decidere su questo tipo di cause secondo bizzarri criteri territoriali.

La normativa “coprirebbe” i casi verificatisi a partire dal luglio 2008: verrebbe meno, cioè, la espressa retroattività. Quest’ultimo costituisce un aspetto della normativa assai complesso. La soluzione non può consistere solo nel mero dettato della legge, dovendosi risolvere – ai fini di una scelta coerente con i principi generali del diritto e della successione delle leggi nel tempo che eviti la ricorribilità alla Corte Costituzionale – il problema della qualificazione della disciplina, se di diritto sostanziale o di diritto processuale.

Potrebbe esservi spazio per una soluzione pragmatica, equilibrata, che tenga conto delle opposte esigenze: dell’auspicabile efficacia del nuovo istituto, ma anche della certezza dei rapporti già definitisi. Non è assolutamente condivisibile, invece, l’impostazione che – in parte complicando, in parte stravolgendo le norme approvate – si vorrebbe dare agli emendamenti. Sarebbe bene che, prima di giungere ad una scelta definitiva, ci fossero opportuni ripensamenti nel Governo e nel Parlamento. Non è facile trapiantare nel nostro ordinamento un istituto più proprio di quello americano o comunque di quello fondato sulla common law. Molte sono le frizioni che ne possono derivare anche con la disciplina di diritti costituzionalmente garantiti (come quello previsto dall’art. 24 della Costituzione sulla possibilità di stare in giudizio). Inoltre, negli Usa, dove è in vigore da decenni, la class action è ora oggetto di rimeditazione, con l’intento di superare o smussare aspetti distorsivi od oggetto di strumentalizzazioni anti-impresa ovvero da parte dei legali. Ma il concetto di tutela collettiva non è del tutto estraneo al nostro ordinamento (si vedano alcune norme del codice del consumo).

E il testo a suo tempo approvato, pur con alcuni difetti, non è da accantonare, bensì da migliorare senza snaturarlo, per poi semmai sottoporlo ad una fase di sperimentazione applicativa, secondo il metodo spesso adottato per le direttive comunitarie.
In più, andrebbe messo a punto il collegamento tra questa normativa e le discipline, che si sono susseguite, in materia di risoluzione stragiudiziale delle vertenze tra banche e utenti o di composizione dei conflitti, così come andrebbe meglio messa a fuoco la relazione tra la class action e le funzioni dell’Autorità anti-trust. Per compiere un’opera di aggiustamento basterebbero quindici giorni-un mese. Ciò comporterebbe una proroga, dunque, brevissima. Sarebbe la cartina di tornasole di un’effettiva volontà di migliorare l’istituto senza alcun intento dilatorio (che magari speri, cammin facendo, di imbattersi in altri eventi che favoriscano ulteriori slittamenti). Anche per l’autorevole monito di Catricalà, sarebbe bene, dunque, che il Governo facesse conoscere tempestivamente la sua scelta.

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