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Nell’establishment risalta un desolante vuoto

Pezzotta al Colle? Idea non bizzarra

Già alla Camera e al Senato il meccanismo di selezione ha pescato in un lago differente

di Enrico Cisnetto - 05 maggio 2006

Si è usato molto sarcasmo per salutare le nomine di due ex sindacalisti alle presidenze di Camera e Senato. Per carità, la cosa è comprensibile in un Paese dove il sindacato, dagli anni Settanta in poi, ha avuto e continua ad avere un peso rilevante – troppo spesso trasformato in un conservativo diritto di veto – nei meccanismi decisionali e nello stesso dna italiano, per via di quella cultura rivendicativa – il più delle volte declinata in chiave corporativa – che ha permeato il Paese. Ma sarebbe riduttivo giudicare la scelta di Fausto Bertinotti e Franco Marini con un qualunquistico “guarda come ci siamo ridotti”. Intanto, perchè non lo meritano le due personalità: il successore di Casini è l’unico “non comunista” a capo di un partito neo-comunista che lui, pur tra mille contraddizioni, ha saputo trasformare in una forza di governo; mentre chi ha preso il posto di Pera è un democristiano assai meno (o per nulla) clericale e integralista rispetto a quanto non abbia dimostrato di essere il suo “laico” predecessore. E poi, la vera domanda che dobbiamo porci è perchè il meccanismo di selezione della classe dirigente questa volta è andato a “pescare” proprio in quel “lago”. E la risposta non può che essere una: perchè si sono prosciugati gli altri. Non è solo che si sono azzerati i partiti, o comunque la loro funzione formativa di quadri, o che sono venute meno quelle fucine di uomini di valore come sono state le grandi aziende pubbliche e private – in questi giorni cade il centenario della nascita di Enrico Mattei, e la rievocazione della sua figura, pur al netto degli aspetti controversi, fa risaltare il desolante vuoto di oggi – piuttosto che alcune istituzioni, Bankitalia in primo luogo. No, il vero problema è che è stata introdotta una modalità della politica che prevede di saltare ogni forma di intermediazione tra i cittadini (intesi esclusivamente come elettori) e i suoi rappresentanti, che ha finito col distruggere ogni strumento di formazione e di selezione meritocratica della classe dirigente. E non si tratta solo di una conseguenza della spettacolarizzazione della politica imposta dalla televisione: siamo di fronte ad un populismo che, facendosi scudo della sacrosanta necessità di accorciare le distanze tra paese reale e paese legale, rovescia le responsabilità, costruendo un ceto politico basato sulla capacità di interpretare e rappresentare non gli interessi (come sarebbe logico) e neppure la volontà razionale degli italiani, bensì i loro desideri e i loro istinti. Il primo a utilizzare questa “tecnica” è stato Berlusconi, ma la colpa tanto della sinistra quanto del centro moderato è stata quella di essersi adeguati di fatto pur respingendola, o addirittura demonizzandola, in linea teorica. Quando a Vicenza il Cavaliere ha dato il meglio di sé nei panni del politico che salta l’organizzazione di categoria (la Confindustria) per parlare “al cuore” degli imprenditori, i suoi avversari hanno polemizzato ma in realtà si sono mangiati le mani per non essere stati bravi quanto lui. Insomma, il confronto è tra una pratica peronista della politica, osteggiata ma invidiata e quindi talvolta maldestramente imitata, e una concezione gramsciana (i corpi intermedi come cinghia di trasmissione) mischiata ad una sessantottina (la società civile ha sempre ragione). Il risultato è stato l’impoverimento progressivo della classe dirigente – non solo quella politica – e il conseguente declino del Paese.
Dunque, sarebbe meglio risparmiare le facili battute sul ticket Bertinotti-Marini, visto che il sindacato, nel bene e nel male, rappresenta uno degli ultimissimi “allevamenti” di ceto dirigente di cui disponiamo. Anzi, a questo proposito va detto che sarebbe uno spreco inaccettabile lasciare che Savino Pezzotta ritorni nelle sue amate valli bergamasche. Egli rappresenta il meglio sia del sindacalismo – mai rivendicazionista, mai asservito all’egemonia della Cgil – sia della cultura cattolica democratica, e con i nomi che circolano per il governo e per il Quirinale, francamente l’ex segretario della Cisl rappresenterebbe una scelta di maggiore affidabilità e serietà. Così come è cosa diversa un imprenditore che “scende in politica” da uno che ha maturato “esperienza politica” attraverso la rappresentanza associativa. Attenzione, non ho mai pensato che il sistema di cooptazione di personalità o di tecnici cui evitare di misurarsi con il consenso popolare, rappresenti una buona alternativa alla classica trafila politica. E spesso le cosiddette “riserve della Repubblica” hanno dato profonde delusioni. Semmai, il problema è favorire il travaso nel circuito politico-istituzionale di esperienze essenziali per guidare il Paese verso la modernizzazione e il futuro. Per questo fatico a pensare, come invece si afferma con banale ripetitività in queste ore, che per il Quirinale serva una presidenza di garanzia. Il tema non è garantire imparzialità tra due coalizioni che si delegittimano, ma impedire che il sistema politico produca sistematicamente ingovernabilità. Per questo c’è bisogno di un Capo dello Stato che abbia il coraggio e la forza di aiutare il bipolarismo all’italiana a superare la propria impasse, a trasformarsi. Occorre una personalità autorevole che chiuda la Seconda Repubblica (evitando che lo facciano i magistrati), e apra la Terza assecondando il passaggio politico di ridefinizione di partiti e alleanze e la riscrittura delle regole che ne sono la premessa. Un identikit che corrisponde solo parzialmente ai nomi in ballo. Bisogna lavorare di fantasia.

Pubblicato sul Foglio del 5 maggio 2006

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