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Gli ingredienti del modello renano e la crisi

Perché la ricetta Merkel è migliore

E se anche l’Italia desse un'occhiata al manuale di geometria piana del cancelliere tedesco?

di Enrico Cisnetto - 09 dicembre 2008

Problema: data una crisi finanziaria che ha ormai attecchito anche nell’economia reale, e dato i Governi europei che applicano pedissequamente il teorema “+consumi=–recessione”, trovare in cosa differisce la “ricetta Merkel”, e dire perchè è migliore. Svolgimento: capovolgere il triangolo, mettere al vertice il rilancio del sistema industriale e alla base i consumi, che non sono il volano per far ripartire l"economia bensì la conseguenza della ripresa, e si avrà il miglior modo per uscire dalla recessione. La geometria piana del cancelliere tedesco è semplice, e frau Merkel non perde occasione per ribadirla, dando anche qualche bacchettata ai colleghi europei, che oggi chiedono a gran voce di "stringersi a coorte" per un ritorno al deficit spending nella speranza che la domanda interna spinta dalle famiglie rimetta in moto la macchina dello sviluppo. E quando la Bundespräsident è stata accusata di avere il “braccino corto” nel dosaggio degli stimoli all’economia – 31 miliardi di euro, uno dei piani più light di quelli messi all’opera nel Vecchio Continente – ha replicato seccamente che Berlino “non parteciperà alla gara dei miliardi solo per dare l’impressione di aver fatto qualcosa”.

Si può darle torto? Il fatto che, secondo gli ultimi sondaggi, “solo” il 52% dei tedeschi ne apprezzi l’operato (contro il 69% di un anno fa), non deve trarre in inganno. In realtà, il risultato della “grande coalizione” guidata dalla Merkel è fatto di conti a posto, di forti investimenti industriali nei settori a più alto valore aggiunto, di efficace delocalizzazione produttiva. Gli ingredienti, insomma, del cosiddetto “modello renano”, che negli anni della riunificazione ha saputo mettere in atto un colossale turnaround industriale non privo di effetti collaterali negativi – 5 milioni di posti di lavoro persi, poi lentamente riassorbiti – ma che ha portato lo smantellamento dei comparti produttivi più vetusti, trasferiti nell’est europeo (divenuto nel frattempo hub manifatturiero della nuova Germania riunita) e l’investimento massiccio sia sulle dimensioni delle imprese (con l’incentivo a diventare grandi campioni nazionali) che sull’innovazione tecnologica.

Un modello tipicamente "export-led", cioè guidato dalle esportazioni, che ha funzionato e che anche oggi mostra di reggere alla bufera in corso. Sicuramente se lo si confronta con il modello anglosassone: sia quello “londinese”, basato sulla finanziarizzazione estrema dell’economia, così come quello made in Usa, fondato sì su grandi investimenti in ricerca ma anche su un livello di indebitamento pubblico e privato che alla prova dei fatti si è dimostrato insostenibile.

E rispetto all’Italia? Certamente il nostro sistema ha preso più da quello renano che non da quello britannico o statunitense. Tuttavia, il modello "mediterraneo" ha perso sia la sfida dimensionale – abbiamo investito troppo e troppo a lungo sul concetto salvifico delle pmi e dell’impresa familiare – sia quella dell"innovazione, visto che una selezione darwiniana del nostro manifatturiero non è mai stata effettuata. Per questo, oggi che un ripensamento radicale del nostro paradigma industriale si rende drammaticamente necessario, forse sarebbe il caso, prima di applicare pedissequamente l’indimostrato teorema del “fattore consumi” (peraltro mai dimostrato), di dare un"occhiata al manuale di geometria stampato a Berlino.

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