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L’analisi dei dati Istat sui consumi in aprile

Perché gli italiani tirano la cinghia?

Sfiducia nel futuro, rimodulazione delle entrate e impoverimento le cause principali

di Enrico Cisnetto - 24 giugno 2005

Perchè se i redditi nominali non calano, crollano i consumi? E come mai, dopo che negli ultimi cinque anni gli acquisti degli italiani sono complessivamente aumentati di oltre il 20% a fronte di una crescita del pil di sei punti percentuali inferiore, ora il segno meno nella contrazione dei consumi è maggiore di quello della recessione? Insomma, perché fino a oggi siamo riusciti a mantenere sostanzialmente inalterato il nostro tenore di vita, integrando i redditi con le rendite derivanti dai piccoli e grandi patrimoni accumulati nel passato, e adesso abbiamo cominciato a tirare la cinghia? Non potevano che essere i dati allarmanti sul crollo record della nostra capacità di spesa – mai così bassa nell’ultimo decennio – a tenere banco ieri all’assemblea della Confcommercio, e anche nella risposta che il governo ha (saggiamente) affidato al ministro Siniscalco.

Le indicazioni fornite dall’Istat fanno pensare che ci siano almeno due grandi tipi di motivazioni che giustificano il cambio di atteggiamento delle famiglie italiane. La prima è che sui consumi si stia ripercuotendo la sfiducia nelle possibilità di ripresa della nostra economia. E’ diffusa la sensazione che i margini di manovra siano molto ristretti, vuoi per l’incapacità di contrastare il declino dimostrata in questi anni da entrambi gli schieramenti politici, vuoi per i vincoli imposti da Bruxelles, e tutto questo spinge gli italiani a preferire il risparmio al consumo. Una propensione al risparmio che è anche accentuata dal diffondersi di una convinzione, rilevata da molti sociologi come vera grande novità di questa fase storica: molti genitori pensano che i loro figli vivranno condizioni inferiori o al massimo uguali alle loro. In una parola, si è persa la fiducia nel futuro. In questa fase, le famiglie hanno anche riorganizzato il proprio modello economico, spostandosi da quello reddituale, in cui alla base dei consumi è posto il reddito da lavoro, dipendente o autonomo che sia, ad uno basato sulle rendite, immobiliari (prevalentemente) e finanziarie. Per questi ceti, i consumi o sono rimasti inalterati (il lusso, per esempio, continua a “tirare”), o hanno subito contrazioni di natura psicologica.

Il secondo filone riguarda invece motivazioni di natura pratica. Si tratta di quei ceti, medi e medio-bassi, che non hanno materialmente più i quattrini per tenere il ritmo dei consumi di un tempo. La caduta degli acquisti di beni alimentari, che al Sud tocca la punta dell’11,4%, è la dimostrazione che una fascia crescentemente ampia di famiglie ha problemi di “fine mese”, e che nemmeno il sommerso – a cui Berlusconi vorrebbe far ricorso per “sistemare” i parametri fuori posto dei nostri conti – è in grado di sopperire.

Insomma, ci sono due Italie non solo geograficamente, e nell’organizzare una qualche risposta bisognerà tenerne assolutamente conto. La risposta di Siniscalco di ieri è riassumibile in due punti: nessuna manovra straordinaria, perchè un intervento restrittivo “ammazzerebbe il malato”, ma neppure nessuna alzata di spalle alle osservazioni sui conti pubblici che ci vengono dall’Europa, non fosse altro perchè mercati e società di rating ragionano come Bruxelles e noi non ci possiamo permettere di perdere credibilità. La sua è parsa una buona ricetta metodologica, ma certo è difficile credere che ci siano le condizioni politiche (in un anno “elettorale”) per fare scelte di fondo. Siniscalco ha giustamente evocato la politica industriale come strumento per tentare di recuperare la via dello sviluppo, ma su questo terreno occorrerebbe un progetto Paese che certo non ci sarà tempo di varare né tantomeno di condividere con l’opposizione (cosa indispensabile se si vogliono fare investimenti, pubblici e privati, di medio termine). Sul fronte del recupero delle risorse, poi, ogni ipotesi non potrebbe che partire dalla constatazione che è necessario riportare sul binomio profitto-reddito l’asse della vita economica del Paese, oggi spostato sulla gestione del patrimonio. Ma anche qui: considerato che il ridimensionamento delle rendite comporterebbe prezzi alti da pagare, ci sono le condizioni per parlare agli italiani il linguaggio della verità?

Diciamocela tutta: il rischio che corriamo – e a cui la prudenza di Siniscalco sembra speculare – è che la Finanziaria sia un tanto estenuante quanto mortale gioco di mediazione delle diverse attese che le grandi corporazioni hanno, specie sul terreno fiscale (leggi Irap), da cui non verrà nulla di buono. Tantomeno la capacità di sciogliere la contraddizione che ci vede essere l’unico paese contemporaneamente sanzionato per deficit eccessivo e in recessione.

Pubblicato sul Messaggero del 24 giugno 2005

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