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Il futuro della ricerca in Italia

Per rilanciare la ricerca in Italia c'è bisogno innanzi tutto di motivare i giovani. E di una politica più lungimirante

di Antonio Gesualdi - 04 aprile 2005

Ancora un appunto sulla ricerca visto che tutti ne parlano. Dobbiamo fare ricerca e, giustamente, l'ex presidente Amato si chiede: "ma cosa dobbiamo ricercare?". Prima di tutto, risponderei, dobbiamo cercare i ricercatori.

In secondo luogo dobbiamo liberarci di qualche luogo comune. I dati, ritenuti imparziali, del National Science Foundation (NSF) e della Commissione Europea (CE) ci confermano che siamo tra gli ultimi per investimenti (spendiamo circa la metà rispetto alla media europea), per risorse umane impiegate, e che l'età media dei nostri ricercatori è di circa 50 anni.

Le cose cambiano se facciamo analisi di produttività della ricerca italiana. Siamo al terzo posto sia per produzione scientifica in genere che di pubblicazioni individuali. Solo il CNR con circa il 5% di ricercatori sul totale italiano e con circa il 5% di risorse sul totale investito nel nostro paese contribuisce alla produttività complessiva con il 17% di pubblicazioni.

I brevetti ottenuti da ricercatori italiani nel 2000 sono (per milione di abitanti) 62 in Europa, contro i 135 della media europea, e 32 negli USA, contro i 73 della media europea. Ma se facciamo il calcolo per ogni 1000 ricercatori ci accorgiamo che gli italiani hanno ottenuto 47 brevetti europei, contro una media di 59, ma meglio degli inglesi e come i francesi.

In USA gli italiani hanno ottenuto per ogni 1000 ricercatori 24 brevetti, alla pari con inglesi e francesi e poco sotto la media europea. In terzo luogo i numeri di chi fa ricerca: in Italia abbiamo (dati 2001) circa 154.000 persone addette alla ricerca e sviluppo.

Di queste il 38,6% lavora nella Pubblica amministrazione (CNR, ENEA, INFN, ISFOL, ISTAT ecc.), il 38,3% nelle università e il 42,4% nel privato. Di questi 66.702 sono ricercatori dei quali il 19,4% nella Pubblica amministrazione, il 40,6% nelle università e il 39,8% nel privato.

Dunque, come si vede, l'università italiana non è il luogo esclusivo o privilegiato della ricerca. Anzi l'evidenza ci dice che è il settore privato quello che impiega, più di altri, ricercatori e personale addetto alla ricerca. E sappiamo anche che queste persone hanno in media circa 50 anni; ovvero possiamo ipotizzare che oltre il 40% uscirà dal lavoro nei prossimi 10 o 15 anni.

Qualche conclusione: combinando alcuni dati demografici e strutturali bisogna attendersi una forte uscita di personale dal lavoro fino al 2012-2015 che non sarà altro che la conseguenza della forte entrata al lavoro intellettuale dagli anni settanta. Non solo ma se la ricerca, in Italia, la fanno per metà i privati è chiaro che un sistema di piccole aziende come il nostro non sarà in grado di mantenere l'equilibrio tra pensionamenti e nuovo reclutamento. Dunque la ricerca italiana (che ha un'ottima produttività) - se non abbiamo già perso il treno - è un affare di interesse nazionale che va affrontato seriamente in ottica di medio periodo. E va affrontata anche in modo settoriale: gli insegnanti di fisica e chimica, ad esempio, sono vicini alla pensione e quelli di medicina sono rarissimi sotto i 40 anni.

Il problema è importante perché si stanno affacciando alla scelta dei corsi universitari le generazioni nate negli anni ottanta. Si tratta di generazioni completamente fuori dal baby-boom e quindi si tratta di "risorse umane" importantissime che non possiamo sprecare. La classe dirigente di questo Paese deve - ne ha l'obbligo e la responsabilità - indicare a questi giovani percorsi di studio per un progetto-Paese coerente. Si tratta di avere una politica di lungo periodo che sarà vitale per il futuro.

Ma ragionare a quindici o vent'anni a venire può significare qualcosa per questa nostra politichetta del giorno per giorno?

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