ultimora
Public Policy
  • Home » 
  • Archivio » 
  • Per innovare non serve sempre inventare

Innovazione: tanto spreco e pochi risultati

Per innovare non serve sempre inventare

Il motore dell’innovazione corre come una Panda ma potrebbe andare come una Ferrari

di Cinzia Giachetti* - 24 ottobre 2007

Da tempo, direi da oltre 20 anni, si sente usare la parola “innovazione” dappertutto, dalla politica alla pubblica amministrazione, dal singolo imprenditore di successo al bravo ricercatore. Nessun programma, dibattito, convegno, intervento di leader politico ecc. può concludersi senza aver almeno una volta utilizzato il termine innovazione. L’impressione, o meglio i fatti, dimostrano però che si abusa di questo termine, o meglio se ne parla più per “auto-referenziare” un singolo caso di successo, o per accattivarsi il consenso di chi ci ascolta, piuttosto che per implementare un vero programma per il rilancio del paese.

Intanto si dovrebbe condividere il significato del termine “innovazione”. Innovare significa prima di tutto investire e poi avere la capacità di essere competitivi e restare al passo con il mercato adottando le migliori soluzioni per l’innovazione tecnologica e gestionale. Si deve sempre essere proiettati nel futuro andando a guardare cosa fanno i tuoi “competitor” e ricercando le migliori soluzioni da acquisire. Quello che sembra ancora non condiviso da molti è capire che l’innovazione, sia essa di processo, di prodotto o gestionale ha una durata di vita molto più breve che nel passato e quindi si deve saper cogliere al volo il momento per innovare, e cioè anticipare i tempi prima dei “competitor”.

Il percorso dell’innovazione, secondo la interpretazione più classica, parte dalla ricerca, che se è di qualità produce risultati che poi con la cosiddetta “exploitation” diventano prototipi o tecnologie innovative. Il sistema del trasferimento tecnologico composto da diversi attori (dagli investitori ai policy makers, dai cosiddetti facilitatori alle Associazioni di categoria, dai ricercatori alle imprese) è complesso ma dovrebbe poi portare a ingegnerizzare i risultati e i prototipi per poi finalmente arrivare sul mercato. La complessità del processo di trasferimento tecnologico mal si sposa con la necessità di fare in fretta per cogliere il momento dell’Innovazione e finché non si riuscirà a “sistematizzare” il processo, i servizi e le infrastrutture dedicate la trasferimento tecnologico, non si riuscirà a competere nel mondo globale. Nel panorama italiano, esistono oggi oltre 300 organizzazioni che fanno parte del “motore” dell’Innovazione, che però fa fatica a entrare in accelerazione, ma anzi perde i “colpi” e resta indietro. La maggior parte di queste organizzazioni sono strutture miste pubblico-private, di varie dimensioni ma spesso molto piccole, supportate da fondi pubblici per compiere azioni di stimolo, di analisi, di valutazione e di realizzazione dei processi di trasferimento tecnologico. Alcune sono organizzazioni nate in specifici settori tecnologici o industriali, altre invece operano in settori multidisciplinari e quindi con diverse competenze tecniche ed economiche.

Ormai queste strutture (Reti per il supporto alla ricerca, Parchi Scientifici, Incubatori, Poli Tecnologici, Consorzi misti pubblico/privati, Distretti Industriali e Tecnologici) rappresentano diversi tentativi di modelli organizzativi ritenuti necessari allo sviluppo della competitività del nostro paese, capaci di far dialogare mondo produttivo e mondo della ricerca. Perché allora le cose non funzionano? L’Italia è ferma e si assiste ad una mancanza di competitività delle nostre imprese come pure nel mondo della ricerca. Si continua a dire che si deve investire di più in ricerca e questo è vero, ma è anche vero che investimenti ne sono stati fatti molti ed anche rilevanti per rilanciare settori produttivi in crisi e per finanziare le aree più eccellenti e promettenti della ricerca. Allora proviamo ad esaminare alcuni aspetti fondamentali del perché non funziona il processo di innovazione:

• Intanto esiste una mancanza totale di raccordo e coordinamento di queste 300 strutture, che lavorano spesso duplicando iniziative e progetti, sprecando risorse per ottenere scarsi risultati nei confronti dell’investimento. Ci sono alcune organizzazioni che per tradizione e modelli sono continuamente monitorate, formate e aggiornate dall’Unione Europea e quindi sono sottoposte a valutazioni molto attente delle loro performance e paragonate con altri soggetti europei, come la rete degli Innovation Relay Centre. Mentre ci sono altre organizzazioni che, essendo nate con una valenza più territoriale e con finanziamenti pubblici, fanno più leva sul supporto politico locale per la loro promozione, piuttosto che misurarsi su risultati concreti. La parola chiave per lo sviluppo è “fare sistema” prima a livello regionale e poi nazionale e cercare di integrare risorse e competenze a beneficio delle piccole e medie imprese, principali utenti di queste strutture.

• I finanziamenti alla ricerca, anche se sempre più ridotti (ma questo non e’ sicuro perché il vero dato non emerge, in quanto il sistema di tassazione penalizza con l’IRAP le risorse impegnate in ricerca e quindi c’e’ la tendenza a dichiarare meno), dovrebbero comunque procedere all’insegna della qualità e della produttività di risultati. Ma che fine hanno fatto tutti gli investimenti degli ultimi 10 anni con le leggi di finanziamento alla ricerca nazionali, quelli erogati dalle Regioni nell’ambito dei Fondi Strutturali e quelli erogati dall’Unione Europea nell’ambito dei Programmi Quadro? Se oggi siamo fermi in competitività non è perché si investe poco in ricerca, che pur è vero, ma è perché gli investimenti fatti non hanno prodotto risultati capaci di essere introdotti nel mercato. Significa che il processo di trasferimento tecnologico, che pur vede molti soggetti e risorse impiegate, non funziona. E’ da rilevare che spesso i risultati della ricerca validi ci sono, ma non esistono adeguati metodi e strutture capaci di innescare il processo di trasferimento tecnologico. Rilevante e’ il problema dei brevetti perché da un lato c’e’ un mancanza di cultura alla brevettazione, ma anche un costo troppo elevato e si dovrebbero attivare degli incentivi fiscali vantaggiosi. Il brevetto è una componente fondamentale del processo di innovazione, ma spesso resta appeso come in una vetrina e si utilizza per autoreferenziarsi senza implementare un piano di marketing.

• Un terzo aspetto che oggi assume una importanza determinate è la mancanza di strumenti adeguati ad accelerare il “motore” dell’Innovazione e del trasferimento tecnologico. Infatti è ormai opinione degli esperti in questo settore che per fare in modo che i risultati della ricerca arrivino al mercato si dovrebbe far leva sulla cosiddetta “finanza innovativa” che si ispira a modelli di finanza privata (Venture Capital, Business Angel ecc.), dove anche le nostre banche dovrebbero avere un ruolo attivo. I casi conosciuti oggi di iniziative di questo tipo riguardano soprattutto le medie e grandi imprese, mentre le piccole, che rappresentano il 90% del nostro sistema produttivo, non riescono ad accedere a questi strumenti.

L’argomento è molto complesso e i punti esaminati rappresentano solo degli spunti di riflessione per i governi nazionali e regionali che tanto investono in programmi e progetti per l’Innovazione. Si dovrebbe attivare una nuova fase del sistema innovazione che tenga conto delle esperienze di questi ultimi 20 anni. In pratica avremmo tutto a disposizione per innovare ma quando si vanno ad “assemblare” i vari pezzi il motore funziona come una Panda, mentre dovrebbe andare come una Ferrari. Accade sempre che nell’alternarsi dei diversi governi si tende a creare qualcosa di nuovo in nome dell’innovazione, come Sviluppo Italia e l’Agenzia Nazionale per l’Innovazione, che poi per lavorare hanno la necessità di utilizzare le altre organizzazioni, ben radicate sul territorio regionale, già strutturate e che operano da anni nel processo di innovazione. L’impressione è che anche in questo campo ci siano molti sprechi che non favoriscono il superamento degli ostacoli allo sviluppo della competitività del paese, ma piuttosto alzano altre barriere.

Nel Programma CIP (Competitività e Innovazione) dell’Unione Europea sono stati selezionati consorzi in tutti i paesi membri per creare “Reti per il supporto al business e all’innovazione”. La partecipazione al bando di gara ha imposto la creazione di consorzi di organizzazioni già esistenti con profonda esperienza nel campo dell’innovazione. La politica dell’Unione Europea, nel selezionare queste reti, è stata quella di “integrare”, “ottimizzare le risorse” e “offrire un servizio efficiente e di qualità”. I consorzi italiani selezionati vedono insieme Università, Enti di ricerca, Confindustria, Camere di Commercio, Consorzi misti pubblico/privati, Associazioni di categoria che finalmente saranno costretti a lavorare insieme. Mi chiedo perché i governi si debbano inventare cose nuove, invece di appoggiarsi a strutture che godono anche della certificazione di qualità dell’Unione Europea.

*Direttore Innovazione e Trasferimento – Consorzio Pisa Ricerche Presidente Federmanager - Pisa

Presidente Progetti Manageriali s.r.l. - Roma

Social feed




documenti

Test

chi siamo

Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.