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Breve il passo tra concertazione e immobilismo

Pensioni e recessione

Non facciamo delle pensioni una bandiera

di Davide Giacalone - 02 dicembre 2011

Non si deve fare delle pensioni una bandiera, con tanto d’impuntature che non tengono conto della realtà e ritualità sui numeri magici (i 40 anni d’anzianità cui s’affida la cabala della Cgil). Il governo ha toccato con mano quanto sia breve il passo fra il concertare e l’immobilizzarsi. Siccome si deve andare avanti, come Monti è determinato a fare, meglio ragionare concretamente, sia dei principi quanto delle misure concrete. E’ la via per rendere accettabili cose sgradevoli. Piuttosto che erigere barricate, o irrigidirsi su posizioni preconcette, meglio affrontare il nodo pensioni partendo dal quadro dipinto dall’Ocse, ieri riproposto da Corrado Passera: ci avviamo verso una decrescita del prodotto interno, sicché si deve stare bene attenti a non adottare misure che rendano più profonda la recessione. Alzare l’età pensionabile, incentivare a restare nel mondo del lavoro, intervenire sui contratti aumentando le ore effettivamente lavorate, rendere più seri i controlli per contrastare l’assenteismo ingiustificato, sono misure espansive, perché portano maggiore produttività e non maggiori costi. Tagliare la rivalutazione delle pensioni, vale a dire il loro adeguamento al costo della vita, che già sconta un ritardo cronico, invece, è una misura depressiva, perché toglie potere d’acquisto a soggetti che, nella quasi totalità dei casi, consumano per quanto incassano. In tutti e due i casi si tratta di interventi sulle pensioni, ma mirati a platee diverse e con effetti opposti. Rifiutarli l’un per l’altro significa rifiutarsi di ragionare. Come i bimbi che chiudono gli occhi per non vedere il buio. Alcuni interventi sono possibili anche sui così detti “diritti acquisiti”, come la rimodulazione del mix fra retributivo e contributivo. Non sarei scandalizzato dall’azione di contrasto su privilegi già concessi, anzi li troverei opportuni. Giuliano Cazzola ha ricordato che negli ultimi 20 anni sono andati in pensione 3 milioni e mezzo di persone sulla cinquantina. Non era giusto e si può chiedere qualche cosa indietro. Anche perché a pagare per quel privilegio sono giovani lavoratori che percepiranno pensioni del tutto diverse, e inferiori.

Nel procedere, si deve avere cura di non diffondere sentimenti d’ingiustizia. Due esempi. Il primo relativo ai lavoratori attualmente giunti a fine carriera che sono stati messi in mobilità per poi passare alla pensione, è chiaro che se sale l’età pensionabile non possono essere mollati nel nulla, con due o tre anni di vuoto nel corso dei quali non saprebbero come mantenersi. Il secondo riguarda il vitalizio dei parlamentari: stabilire che se ne può usufruire a partire dai 60 anni, laddove questa è l’età odierna per il ritiro delle sole donne, che s’intende aumentare, e stabilire che il contributivo parte dal 2012, non sono dimostrazioni d’arroganza, ma di demenza. Corrano a rimangiarsi questa roba.

Il governo Monti deve agire su due leve: quella della cassa (perché costretto) e quella dello sviluppo (perché altrimenti implodiamo). L’una non è migliore o più necessaria dell’altra, ma c’è una differenza di tempi nel rapporto fra azione ed effetto: tasse e tagli, come quelli previsti per le pensioni, hanno effetti immediati; per lo sviluppo, invece, le riforme agiscono sul futuro. C’è un’altra differenza, non meno rilevante: far cassa ha effetti depressivi, che aggravano la recessione in atto; fare le riforme, nel senso delle liberazioni e liberalizzazioni, ha effetti espansivi. Sarebbe bello far cassa dopo avere riscosso gli effetti delle riforme, ma i mercati e l’Unione europea non ci concederanno questo lusso. Guai, però, a cadere nella trappola dei due tempi, per cui si affronta subito l’emergenza (bussando a soldi) e si rimanda, anche solo di qualche settimana, quel che serve al futuro. Se commettesse questo errore, il governo Monti, comprometterebbe il nostro e il proprio futuro. Ha assicurato il contrario, e non c’è ragione di non credergli. Senza offendere l’autonomia del Parlamento, e per non arrecare offesa all’intelligenza di noi tutti, ben consapevoli di vivere una stagione molto particolare, tanto anomala quanto necessaria, il governo farebbe bene a chiarire due cose: a. il pacchetto di provvedimenti è uno solo, illustrato e presentato nello stesso momento; b. può essere articolato in uno o più decreti, ma s’ispira alla logica del “prendere o lasciare”. Spiacenti per i devoti della concertazione, ma se si apre la porta alle pressioni degli interessi particolari e agli egoismi di questa o quella forza politica, si avvia una corrida degli emendamenti il cui esito è scontato: una volta trafitto il torero la bestia devasterà gli spalti e s’arroterà le corna con le carni degli astanti. Il pacchetto deve essere chiuso e non negoziabile. Le forze politiche che hanno votato la fiducia avrebbero dovuto pensarci prima. Avevamo avvertito. Avendo delegato ad altri, adoperino il tempo per far quel che “ancora” compete loro: la riforma della nostra governance nazionale. La squadra di Monti ha assaggiato il lato ruvido del trovarsi in alto. Hanno scoperto che certe cordate sono normali in ateneo, così come certi privilegi s’ammucciano alla grande nelle corporazioni, ma l’esposizione ai riflettori è scomoda. Non perdano il controllo e chinino la testa sul lavoro. Al governo spetta presentare un solo mosaico, sebbene composto da diverse tessere. Non è consentito regalare un puzzle, che ciascuno risistema a piacimento. Al Parlamento spetta una risposta secca: sì o no. A nessuno passi per la testa di far troppo il ganzo. Non è aria, non è il momento, non è serio.

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