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Manca la coesione nelle contromisure europee

Pechino risponde ai dazi di Bruxelles

Gli imprenditori tessili occidentali avevano dieci anni per prepararsi

di Antonio Picasso - 27 aprile 2005

Cattive notizie da Pechino. Dopo le tante minacce europee di imporre i dazi doganali sui prodotti tessili cinesi, il Governo popolare ha deciso di usare le stesse armi. Così, chi di protezionismo ferisce, o almeno tenta di fare, di protezionismo perisce.

Federico Rampini su Repubblica fa sapere che le intenzioni di Pechino verso Bruxelles sono tutt’altro che all’acqua di rose. Ricorso al tribunale imparziale del Wto, ritorsioni e boicottaggi commerciali contro il made in Italy o il made in France e rivalutazione della moneta nazionale (renmnbi). Un piano questo che può far pensare a un’aperta guerra commerciale.

L’appello presentato al Wto, infatti, metterebbe la Cina in una posizione politica interessante. La grande potenza emergente, così, ancora formalmente comunista, si ergerebbe a difesa della libertà degli scambi nell’economia globale, contro l’egoismo e la miopia delle vecchie nazioni industrializzate.

Per quanto riguarda l’impatto prettamente commerciale, inoltre, Pechino avrebbe stabilito di tassare le proprie esportazioni tessili. Una misura che verrebbe incontro alle richieste europee, ma che, nel lungo periodo, darebbe maggiori vantaggi alla Cina, incentivando la specializzazione del tessile nazionale, che diverrebbe, così, ancora più pericoloso per Italia e Francia.

In Europa, tuttavia, sembra che non si riesca a cogliere la gravità della situazione. Da anni l’Unione pubblica approfondimenti sul tema, ma la coesione continua a mancare. I Paesi mediterranei e buona parte di quelli dell’Est (più Turchia e Marocco) reclamano immediate misure di contenimento da parte di Bruxelles. E delle istanze protezionistiche Francia e Italia si son fatte paladine. A queste, d’altra parte si sono opposti i Paesi di tradizione liberista. Olanda, Gran Bretagna e Svezia. Ai quali si è associata la Germania di Schröder.

Ma Rampini ricorda anche che se le barriere protezionistiche fossero state levate prima e più gradualmente, l’impatto del made in China sarebbe stato meno brutale. Nel 1994 Europa e Stati Uniti approvarono il primo ingente piano di liberalizzazione degli scambi internazionali. Da allora, l’Occidente ha avuto dieci anni per prepararsi. La mancata ristrutturazione dell’industria tessile, quindi, è una colpa che ricade su governi e dirigenti industriali nostrani, non sui cinesi.

“Che fare allora?” si chiede Mario Deaglio sulla Stampa. E’ necessario, per prima cosa, che l’Europa trovi un accordo tra i Paesi membri e si ponga, a livello internazionale, quindi non solo nei confronti della Cina, come soggetto unico e unito. E poi che si giunga, in tempi brevissimi, alla definizione di una politica industriale, per modificare una struttura produttiva incapace di confrontarsi con una economia internazionale sempre più veloce e mutevole.

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