La politica vecchia e nuova
Patto fra innovatori
Un modo per riconoscere gli innovatori è misurare la loro capacità di parlare a tutti, senza lasciarsi ingabbiare dagli schieramenti. E capaci anche di sopravvivere ai rifiuti, perché quello cui mirano non è un posto a palazzo.di Davide Giacalone - 21 ottobre 2012
Si prepara una raffica di appuntamenti elettorali, sommandosi regioni che crollano, Parlamento che scade e altre amministrative che giungono a scadenza. Il lavorio delle forze politiche, nel prepararsi a queste scadenze, si concentra sul come vincerle, come trasmettere agli elettori la sensazione d’essersi rinnovati, con quali alleanze presentarsi e come meglio contrapporsi agli avversari degli ultimi venti anni. Il radar non intercetta riflessioni e proposizioni che riguardino il cosa fare dopo essere stati eletti, cosa realisticamente promettere e come realizzarlo. Domina la convinzione che la democrazia s’incarni nel rito elettorale, laddove, invece, quando questo si ripete senza nulla produrre, quando la consultazione popolare appare dall’esito già inutile, quando al conteggio delle schede non corrisponde un conseguente indirizzo della cosa pubblica, quando tutto si riduce alla scelta del “chi”, trascurando sia il “cosa” che il “come”, la democrazia s’ammala, e tracolla proprio officiando il rito. E’ già successo, meglio ricordarsene.
A questo si aggiunga che nel mentre si contestano i costi e l’elefantiasi della politica, ci accingiamo ad una stagione in cui, senza i necessari denari e non disponendo di strutture organizzative proporzionate, forze alternative, possibilmente portatrici d’idee e non solo di proteste, faranno fatica non solo ad affermarsi, ma anche ad entrare convincentemente nell’insieme delle competizioni elettorali. A questo ostacolo pratico se ne aggiunge uno politico, che alimenta equivoci: sembra quasi che l’alternativa sia fra la sterile competizione partitica degli ultimi diciotto anni, con coalizioni buone per vincere e incapaci di governare, e la mitica “agenda Monti”, fatta di rigore e strizzatine d’occhio demagogiche. Falso, perché l’agenda è esattamente il frutto di quella sterilità, che ha dato luogo a un programma di governo mutuato dai vincoli internazionali.
Così si entra in un circolo vizioso, nel quale i partiti esistenti provano a modificare la legge elettorale, nella speranza di conservare il più possibile sé stessi (ma per rimanere del tutto uguali, se ne rendono conto, forse conviene loro tenersi l’attuale); incapaci di dare vita a governi coesi e forti, nonché con le idee chiare, consegnano le chiavi di casa agli amministratori tecnici; questi ultimi non fanno che dedicarsi alla normale amministrazione, non avendo delega e forza (né competenza) per la straordinaria; chi si presenta come nuovo subisce l’attrazione gravitazionale del governo tecnico, che si giova di un’orbita retta dalla disaffezione collettiva, anche perché se se ne allontana esce dalla visibilità e, quindi, dalla votabilità; così facendo, però, finisce con il somigliare a chi vorrebbe sostituire, non proponendo idee sulle quali chiedere la delega, ma stati d’animo in base ai quali si delegano i tecnici.
Quel genere di trappola scatta (e da noi è scattata) quando non si riesce a concepire il futuro altro che come prosecuzione omologa del passato. Quando mancano gli innovatori, insomma. In Italia, invece, si dovrebbe innovare, capovolgendo il dilemma: non dannarsi a trovare le risorse con cui mantenere la macchina statale, interpretata nel suo bel volto dei servizi e dei soccorsi, ma proporsi di far dimagrire il mostro burocratico, non solo asfissiando i suoi vizi, ma anche tarpando le sue impossibili aspirazioni, in questo modo restituendo risorse a un mercato che sa e vuole crescere. Non prolungare la penitenza per i peccati di ieri, ma chiudere i conti del debito (mediante dismissioni) e approfittare di una disciplina di bilancio che ci rende fra i più affidabili e meritevoli. Non cercare nei patrimoni privati gli strumenti per reggere i debiti pubblici, ma lasciare che la voglia di ricchezza e benessere spinga il ritorno alla crescita. E, si badi, non sarebbe solo un’innovazione a uso nazionale, perché di questa cura, di questo ritorno alla realtà, ha bisogno tutta intera l’Europa.
Gli innovatori vanno avanti perché sentono di avere in mente idee giuste, curandosi poco delle sconfitte che accumulano. Abbiamo bisogno di un accordo fra innovatori: chiunque di loro vinca s’impegni a ribaltare l’equilibrio delle impotenze e il moto inutile della stagnazione. Non per sostituire gli altri in un potere sempre uguale, ma per usare il potere e liberare l’Italia dai pesi del passato. Ecco un modo per riconoscere gli innovatori, misurando la loro capacità di parlare a tutti, senza lasciarsi ingabbiare dagli schieramenti. E capaci anche di sopravvivere ai rifiuti, perché quello cui mirano non è un posto a palazzo.
A questo si aggiunga che nel mentre si contestano i costi e l’elefantiasi della politica, ci accingiamo ad una stagione in cui, senza i necessari denari e non disponendo di strutture organizzative proporzionate, forze alternative, possibilmente portatrici d’idee e non solo di proteste, faranno fatica non solo ad affermarsi, ma anche ad entrare convincentemente nell’insieme delle competizioni elettorali. A questo ostacolo pratico se ne aggiunge uno politico, che alimenta equivoci: sembra quasi che l’alternativa sia fra la sterile competizione partitica degli ultimi diciotto anni, con coalizioni buone per vincere e incapaci di governare, e la mitica “agenda Monti”, fatta di rigore e strizzatine d’occhio demagogiche. Falso, perché l’agenda è esattamente il frutto di quella sterilità, che ha dato luogo a un programma di governo mutuato dai vincoli internazionali.
Così si entra in un circolo vizioso, nel quale i partiti esistenti provano a modificare la legge elettorale, nella speranza di conservare il più possibile sé stessi (ma per rimanere del tutto uguali, se ne rendono conto, forse conviene loro tenersi l’attuale); incapaci di dare vita a governi coesi e forti, nonché con le idee chiare, consegnano le chiavi di casa agli amministratori tecnici; questi ultimi non fanno che dedicarsi alla normale amministrazione, non avendo delega e forza (né competenza) per la straordinaria; chi si presenta come nuovo subisce l’attrazione gravitazionale del governo tecnico, che si giova di un’orbita retta dalla disaffezione collettiva, anche perché se se ne allontana esce dalla visibilità e, quindi, dalla votabilità; così facendo, però, finisce con il somigliare a chi vorrebbe sostituire, non proponendo idee sulle quali chiedere la delega, ma stati d’animo in base ai quali si delegano i tecnici.
Quel genere di trappola scatta (e da noi è scattata) quando non si riesce a concepire il futuro altro che come prosecuzione omologa del passato. Quando mancano gli innovatori, insomma. In Italia, invece, si dovrebbe innovare, capovolgendo il dilemma: non dannarsi a trovare le risorse con cui mantenere la macchina statale, interpretata nel suo bel volto dei servizi e dei soccorsi, ma proporsi di far dimagrire il mostro burocratico, non solo asfissiando i suoi vizi, ma anche tarpando le sue impossibili aspirazioni, in questo modo restituendo risorse a un mercato che sa e vuole crescere. Non prolungare la penitenza per i peccati di ieri, ma chiudere i conti del debito (mediante dismissioni) e approfittare di una disciplina di bilancio che ci rende fra i più affidabili e meritevoli. Non cercare nei patrimoni privati gli strumenti per reggere i debiti pubblici, ma lasciare che la voglia di ricchezza e benessere spinga il ritorno alla crescita. E, si badi, non sarebbe solo un’innovazione a uso nazionale, perché di questa cura, di questo ritorno alla realtà, ha bisogno tutta intera l’Europa.
Gli innovatori vanno avanti perché sentono di avere in mente idee giuste, curandosi poco delle sconfitte che accumulano. Abbiamo bisogno di un accordo fra innovatori: chiunque di loro vinca s’impegni a ribaltare l’equilibrio delle impotenze e il moto inutile della stagnazione. Non per sostituire gli altri in un potere sempre uguale, ma per usare il potere e liberare l’Italia dai pesi del passato. Ecco un modo per riconoscere gli innovatori, misurando la loro capacità di parlare a tutti, senza lasciarsi ingabbiare dagli schieramenti. E capaci anche di sopravvivere ai rifiuti, perché quello cui mirano non è un posto a palazzo.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.