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Tra le tante cose dette e successe a Washington

Patto bipartisan anche alla Farnesina

Alla politica estera serve stabilità e continuità. Qualunque sia il risultato del 9 aprile

di Antonio Picasso - 02 marzo 2006

Una cosa giusta è stata detta, questo bisogna riconoscerlo. Tralasciate le parole un po’ banali ed enfatiche pronunciate dal presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, al Congresso degli Stati Uniti; messe da una parte le questioni all’ordine del giorno – per esempio la lotta al terrorismo, il ritiro o meno delle truppe dall’Iraq, la corsa al nucleare da parte dell’Iran e, più in generale, la fluidità perniciosa di tutto il Medio Oriente – ma soprattutto evitati commenti sulle bieche strumentalizzazioni di questa visita ufficiale, sia dal centro-destra, che dal centro-sinistra, supportate solo da inaccettabili ragioni elettorali, il presidente degli Stati Uniti, George Bush, ha detto una cosa importante. E cioè che il governo Berlusconi ha dato stabilità al lavoro transatlantico comune. E questo è un bene, perché, con il cambio quasi annuale al vertice dell’esecutivo italiano, era impossibile definire una linea di politica bilaterale. Verissimo. Certo, una stabilità relativa, tenuto conto dell’avvicendarsi di ben quattro inquilini alla Farnesina, incluso l’interim di Berlusconi stesso. E non si può dimenticare, poi, che le parole di Bush siano state fraintese un po’ da tutti. Tuttavia, queste nascondono un criterio fondamentale di come si conduce una politica estera. Vale a dire nel segno della stabilità e della continuità.
A poco più di un mese dalle elezioni, nei programmi dei due schieramenti le pagine riservate alla politica estera risultano essere le più farraginose e prive di sostanza. Il leader radicale Daniele Capezzone, che dell’Unione fa parte, ha detto che quella di Prodi potrebbe essere la linea di una Ong di medio livello. La modestia del programma del centro-sinistra era nota, stona il fatto che lo ammetta uno degli esponenti di quella stessa coalizione.
Diplomatici e analisti sostengono che la politica interna di uno Stato si fa seguendo quella internazionale. In modo che, a seconda di quel che accade nel mondo, un governo imposta una o l’altra rotta. In Italia, però, non è mai stato così. Al contrario, gli interessi particolaristici di partito hanno sempre prevalso su quello nazionale. E così ci siamo ritrovati, fin dagli anni della Guerra fredda, ad avere presidenti del Consiglio, sempre uno diverso dall’altro, che, a ogni caduta di governo – in media uno l’anno dal 1945 a oggi – si sono recati in visita a Washington.
Quella di Berlusconi è stata sicuramente una politica estera mediocre. Spettacolare in certi momenti, di basso profilo nella sostanza complessiva. Tuttavia, ritornando alle parole di Bush, questi cinque anni di centro-destra suggeriscono che è la diplomazia ad avere il primo bisogno della stabilità. E della continuità. Questo significa che, nel caso dovesse vincere l’Unione, una repentina virata chissà dove provocherebbe comunque delle ripercussioni che il Paese non è in grado di sostenere. Siamo il ventre molle d’Europa, lo ha detto stesso Prodi. Cerchiamo di sviluppare gli addominali, allora. L’Italia, in questo momento, occupa una posizione del tutto indecifrabile sullo scacchiere internazionale, che rischia di scadere nella marginalizzazione. Screditata e sottovalutata in Europa, sottomessa ai ricatti della Russia e alla impetuosa crescita della Cina. Ma anche osservata con cautela dagli Stati Uniti, che restano in attesa di conoscere l’esito delle elezioni del 9 aprile. Urge rendersene conto e avviare, anche in questo caso, un’azione bipartisan per la creazione di una politica estera efficace.

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