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L’obiettivo primario deve essere lo sviluppo

Né con Prodi né con Giavazzi

Il Paese è in declino. Volenterosi, impegnamoci ad usare il massimo del pragmatismo

di Enrico Cisnetto - 02 febbraio 2007

Mentre il pil mondiale cresce del 5,3% e quello italiano dell’1,7% (che già ci sembra una performance eccezionale), per l’ennesima volta noi ci attardiamo nel solito, inutile dibattito ideologico su mercato e Stato, questa volta sotto le (mentite) spoglie del “ritorno dell’Iri”. Vabbè, se proprio dobbiamo attardarci nel gioco di società proposto dal Foglio, allora dico subito che non sto né con Prodi né con Giavazzi (e pazienza se dovrò stare con Scalfari).

Non sto con il Prodi che, lungi dal voler rifare l’Iri – magari, quella era una cosa seria – usa palazzo Chigi per costruirsi il partito che non ha, e gli dà la forma di una banca, la cui nascita annuncia giubilante prima ancora che i consigli di amministrazione lo abbiamo fatto formalmente. Non sto con il Prodi che “adesso gliela faccio vedere io a D’Alema come si lancia un’opa”, e spedisce il fidato Costamagna a costruire la scatola (Mittel più Hopa) che dovrà scalare le Generali con l’ausilio del “ricco del quartierone” Zaleski. Non sto con il Prodi che rovina un’idea giusta – utilizzare la rete Telecom per costruire un nuovo soggetto del nostro capitalismo anoressico – per il desiderio di fare “filotto” e buttar giù in un colpo solo Tronchetti, Mieli e Geronzi. Non sto con il Prodi che spinge Di Pietro ad attaccare i Benetton sulla fusione Autostrade-Abertis, e poi tace quando Bruxelles manda una lettera di ammonizione – inevitabile e giusta – al governo di Roma. Ma soprattutto, non sto con il presidente del consiglio che – al pari del precedente, è proprio vero che Prodi e Berlusconi sono perfettamente simmetrici – non spiega al Paese che è in pieno declino, che per superarlo occorre un nuovo patto sociale e poi però pretende di essere creduto (e credibile) nel momento in cui si atteggia ad “ape regina” (efficace definizione di Forte sul Foglio, unica cosa buona in un pezzo “aberrante”).

Tuttavia, non sto neppure con Giavazzi (o Debenedetti, o Mingardi, o Giannino, dipende da chi è di turno) quando, in nome del Dio mercato, propone le liberalizzazioni – e, cosa ancora più grave, le privatizzazioni – come fine e non come mezzo, facendole diventare tutte necessarie e tutte buone per definizione. Non sto con i “liberisti-komeinisti” quando, in piena “guerra energetica” voluta dal duopolio imperialista del gas, pretendono di attuare una “separazione” tra rete (Snam RG) e gestore (Eni) che indebolirebbe l’unico soggetto che ci assicura gli approvvigionamenti della materia prima sulla quale abbiamo sciaguratamente puntato tutto, quando un ritocco alla governance (si studino il caso della rete tlc di British Telecom, i nostri tardo-tatcheriani) potrebbe tranquillamente bastare. Non sto con Giavazzi quando propone di fare la versione italiana National Grid (cioè unire Snam e Terna) – bene, sono mesi che lo predico – ma pretende che sia fin dall’inizio una public company tranquillamente comprabile dagli stranieri, ignorandone la strategicità ai fini della sicurezza energetica nazionale. E non sto con chi, ignorando colpevolmente i dati di fatto, ha già criminalizzato F21, il fondo per le infrastrutture – e Dio solo sa quanto questo Paese ne abbia bisogno – che ha il solo torto di mettere insieme la Cassa depositi e prestiti (che laddove c’è, come in Francia, da anni svolge un’utile funzione di collante di diversi gruppi del capitalismo d’oltralpe) con le fondazioni bancarie (tornate ad essere bersaglio dopo l’infelice, ma chiuso con recita di meaculpa, tentativo di Tremonti di metterle al bando) e alcuni istituti di credito italiani e stranieri. Tra i quali c’è sì la prodiana Sant’Intesa – e dall’altra parte è la prima banca del Paese, sarà bene farcene una ragione – ma c’è pure l’anti-bazoliano Unicredito (e non è detto che sia finita lì). Il fondo, poi, è stato accusato di voler ristatalizzare – è un po’ dura, avendo la Cdp solo il 15% - Snam, Terna, Enel e quant’altro, quando invece nell’agenda delle sue future acquisizioni ci saranno autostrade, aeroporti, porti, insomma roba del settore trasporti.

Francamente, io non sto con questo modo di ragionare per cui il fine non è lo sviluppo ma l’etica – come se la vera etica del capitalismo non fosse appunto la creazione di ricchezza e sviluppo dentro un quadro di regole condivise – e in base al quale la politica non deve assumersi la responsabilità di indicare le linee strategiche di crescita del paese, che dunque saranno semplicemente la somma dei singoli comportamenti individuali. E lo dico in particolare ai miei amici Volenterosi: saremo tali solo usando il massimo del pragmatismo, non scherzando col fuoco del manicheismo.

Pubblicato sul Foglio del 2 febbraio 2007

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