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Il ritorno di Berlusconi

Non torniamo indietro

Alfano si è fatto agenllo e il lupo se lo è mangiato. Se la risposta al declassamento è un ritonro al "Berlusconi si - Berlusconi no", il default sarà inevitabile..

di Enrico Cisnetto - 14 luglio 2012

È sempre inelegante autocitarsi, ma quando ci vuole ci vuole. Scrivevo su questo giornale il 26 novembre 2011, pochissimi giorni dopo il cambio della guardia tra il governo Berlusconi e quello Monti: “Berlusconi non ha alcuna intenzione di ritirarsi e ha già la testa alla campagna elettorale”, suggerendo ad Alfano di scongiurare per tempo questa eventualità. Pensavo allora, e ho sempre continuato a pensare in questi mesi complicati, che al Cavaliere, nonostante tutte le dichiarazioni di segno opposto e l’ostentato defilarsi dalla routine politica, non passasse neanche per l’anticamera del cervello di “appendere le scarpe al chiodo”. Ma ogni volta che ho ripetuto quella previsione la reazione è stata di quasi unanime scetticismo, di incredulità. Invece, ecco la conferma. Persino in anticipo rispetto ai tempi elettorali, considerato che è ormai acclarato che si voterà al termine naturale della legislatura. Bene. Anzi, male, malissimo. Non per Berlusconi, che ovviamente ha tutto il diritto di fare le sue scelte. Né per il Pdl, che ha tutto il diritto di auto-evirarsi (è davvero uno spettacolo penoso vedere tutti quelli che avevano dovuto aspettare il 14 novembre per cominciare a distinguersi dal fondatore che ora stendono plaudente tappeti rossi al “capo”). Male per la politica italiana e per il Paese, che subisce un arretramento delle lancette della sua storia proprio mentre avrebbe invece bisogno di fare finalmente un salto in avanti. È del tutto evidente, infatti, che la candidatura del Cavaliere finirà col condizionare il gioco politico – già sbrindellato di suo – riportandolo al vecchio schema del “bipolarismo armato” che ha caratterizzato l’intera Seconda Repubblica. Una iattura, ma inevitabile se – come già abbiamo visto nel giro di poche ore – tutto il Pdl subisce silente (anzi, plaudente) il ritorno del “padrone”, dimenticandosi di Alfano (d’altra parte, lui si è dimenticato da solo) e dei buoni propositi di voltare pagina. E se, come da prime avvisaglie, la sinistra farà per l’ennesima volta l’errore di correre dietro a Berlusconi, eleggendolo a nemico numero uno (cosa che fa il gioco suo) e impostando tutta la campagna elettorale sul “no al puzzone”. E dopo una contesa simile, ditemi voi se e come sarà possibile seppellire il sistema politico che ci ha portato ad un passo dal default. Specie, poi, se le alternative elettorali alla vecchia contrapposizione bipolare saranno solo l’astensionismo e Grillo, perché dovesse tardare la creazione di una forza centrale, capace di parlare ai moderati e ai riformisti, di nuovo conio. Insomma, quella del ritorno di Berlusconi è una notizia ferale per chi, come il sottoscritto, si è battuto per il definitivo superamento della Seconda Repubblica e auspica che le elezioni del 2013 siano lo spartiacque per l’apertura della Terza. Ma non cadrò nella trappola di dare la colpa al Cavaliere. La responsabilità è di chi non ha saputo riempire di contenuti decisivi la parentesi aperta dal governo Monti e di chi si è mostrato incapace di capire che occorreva dare, fin dall’inizio e a maggiore ragione ora, “continuità alla discontinuità”. Sto parlando in primo luogo dello stesso Monti e dell’intero suo governo. Il professor Monti si è giustamente irritato quando, specie all’inizio dell’avventura a palazzo Chigi, si sottolineava continuamente il carattere “tecnico” del suo esecutivo, magari anche per metterne in dubbio la legittimità democratica: “siamo stati votati dal parlamento, siamo pienamente legittimati sotto il profilo politico”, rispondeva correttamente. Però poi Monti è rimasto professore – con tutto il rispetto ma anche con tutti i limiti e le differenze con il ruolo da uomo di Stato – e non ha capito che il suo primo problema non era durare fino alla primavera del 2013, ma dare continuità tra la legislatura calante e quella nascente. Parlo di continuità politica, cioè di scelte strategiche, non personale. E di conseguenza, non ha capito che occorreva mettersi in gioco, dire che se fosse stato necessario era pronto ad andare ad una verifica elettorale del suo “piano per salvare l’Italia”. Invece, per paura che una tale eventualità – ammesso e non concesso che la concepisse, nella sua testa – potesse determinare una reazione dei partiti nel breve, ha scelto di dire il contrario, finendo così per legittimare, però, sia l’etichettatura di governo tecnico di assoluta momentaneità e transizione che gli era stata appiccicata addosso. E finendo per suscitare nella testa di chi ci osserva, siano essi i partner europei o i mercati, quei dubbi sulla capacità del paese di proseguire sulla strada del rigore e del risanamento che lo stesso Monti ha giustamente detto essere la causa degli alti spread. Se poi a questo ci aggiungiamo che non tutto quello che il governo ha fatto è meritevole di lode e talvolta persino di sufficienza, e che nel suo complesso la linea scelta – lotta al deficit con aumento della pressione fiscale e crescita fatta con quel poco (niente) che c’è – è assai opinabile, perché sarebbe stato meglio adottarne una del tipo “uso del patrimonio pubblico e chiamata in soccorso di quello privato per abbattere il debito e avere risorse per lo sviluppo”, ecco che le responsabilità del governo diventano grandi. Ad esse si sommano, naturalmente, quelle dei partiti. Che da un lato non sono stati capaci di pungolare il governo, peccando in certi casi di eccesso di acquiescenza e in altri di uso di critica per ragioni poco nobili (il rigore era l’unica cosa su cui non si poteva mettere bocca), e dall’altro con il passare del tempo hanno perso di vista l’obiettivo fondamentale della “unità nazionale” come cornice politica obbligata nella quale iscrivere sia la discontinuità rappresentata dal governo Monti sia la continuità che ad essa occorreva dare per evitare “elezioni greche” e una legislatura al buio. Scrivevo nello stesso articolo del 26 novembre 2011, citato inizialmente, che due dovevano essere gli obiettivi di quella benedetta “discontinuità”: “primo portare il Paese fuori dalla drammatica emergenza finanziaria, secondo creare le condizioni perché si metta mano al vero default nazionale, il fallimento del sistema politico”. Lo confermo. Solo che, in questi mesi – purtroppo – tutte le attenzioni si sono concentrate sull’obiettivo più immediato. Un fronte, peraltro, dove i risultati tardano a venire, come dimostra lo spread a 480 punti e la decisione di Moody’s (tagliare di due scalini il rating sui titoli di Stato italiani, portandoli a Baa2 da A3, mantenendo un outlook negativo), criticabile quanto si vuole ma certo significativa del clima che c’è intorno a noi. Mentre si è trascurato l’altro obiettivo, quello dell’evoluzione del sistema politico. Ha cominciato prima Bersani, che dopo le amministrative si è illuso di poter abbandonare la scialuppa di salvataggio della “grande coalizione”. Poi è toccato al Pdl avere pulsioni, tanto da aver accarezzato l’idea delle elezioni anticipate. Adesso tutto va nella direzione di una riproposizione dello scontro tra due poli ancora intrisi della fallimentare contrapposizione “berlusconismo-antiberlusconismo” e prigionieri di un “leaderismo senza statisti” da cui sarebbe convenuto a tutti allontanarsi. L’unica speranza è una grande iniziativa che rompa questo maledetto schema. Prima che sia troppo tardi.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.