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Cogliamo la palla-crisi al balzo e reagiamo

Non si può più "tirare a campare"

L’Italia deve ritrovare la via dello sviluppo e della modernizzazione per uscire dal declino

di Enrico Cisnetto - 16 gennaio 2009

Per aver scritto ad inizio anno in questa rubrica che la recessione italiana nel 2009 avrebbe ridotto il nostro pil tra i 2 e i 3 punti percentuali, mi sono beccato i soliti insulti (iettatore, catastrofista) da parte di chi considera il realismo un attentato e confonde la fiducia con l’ottimismo e quest’ultimo con l’occultamento della verità. Adesso è la Banca d’Italia a dire che, visto il crollo della produzione industriale – anche questo prevedibile, e siamo solo all’inizio – andiamo incontro ad -2% e solo con il 2010 torneremo alla nostra abituale crescita “zero virgola”.

Naturalmente si dirà che Draghi avrà voluto fare un dispetto a Tremonti, magari per prenderne il posto – e la reazione stizzita del ministro fa credere che sarà “sponsorizzata” questa versione – come se bastasse esorcizzare con qualche sciocchezza sequispedale il problema vero che abbiamo davanti: stiamo andando incontro ad una crisi terribile, e non siamo per nulla preparati. E’ a dir poco deprimente – altro che fiducia! – che al cospetto di una recessione che farà esplodere tutte le contraddizioni del nostro capitalismo e dell’intero sistema economico, la classe dirigente del Paese perda tempo o in inutili discussioni (dirò più in là di Alitalia e Malpensa) o nel tentativo di minimizzare la portata della crisi.

E non solo il Governo, avviato a ripetere la scialba prestazione del 2001-2006, e la maggioranza che lo sostiene, impegnata a dimostrare che non era l’Udc di Casini a mettere i bastone tra le ruote, ma anche l’inesistente opposizione, sempre più avvitata in un distruttivo scontro interno, e le parti sociali, scomparse dalla scena per autoconsunzione. Possibile che non si levi una voce (credibile) a suonare l’allarme e a chiamare ad una reazione? Possibile che non si capisca che attendere il “passare della nottata” lascerà un mucchio di macerie (le decine di migliaia di imprese che chiuderanno)? E che se non si pensa da subito a come sostituire il “vecchio improduttivo” – di cui è bene liberarsi una volta per tutte – con il “nuovo competitivo”, quest’ultimo non nascerà mai?

Confondere la necessità di non lasciarsi travolgere dalla crisi con il fatalismo non solo è stupido, ma criminale. Perchè se l’Italia ha una possibilità di uscire dallo stato di minorità in cui vive da oltre tre lustri, questa è proprio legata alla crisi in atto, e alla capacità di viverla come occasione per rimediare ai mille deficit strutturali che sono stati accumulati in tanti anni di “non governo”. Né serve, a questo fine, trincerarsi dietro l’epocalità mondiale della crisi stessa: non perchè non sia vero che stiamo assistendo ad un cambio di paradigma planetario – e non solo nella finanza e nell’economia – ma perchè proprio per via di questi cambiamenti epocali a noi non sarà concesso di rimanere fermi nel “tran tran” del nostro declino pluridecennale. No, la recessione imprimerà al nostro inesorabile ma lento scivolare di questi anni una violenta accelerazione, ponendoci di fronte ad un bivio ineludibile: o precipitare in una crisi dalle forti ripercussioni sociali (e politiche), oppure trovare le energie morali e materiali per porre fine al declino di stampo giapponese in cui vivacchiamo e ritrovare la via dello sviluppo e della modernizzazione. Insomma, tirare a campare non ci sarà concesso.

Prendiamo il caso di Alitalia: dopo 10 anni di “fallimento prolungato” – di cui portano la colpa i diversi governi che si sono succeduti, e che come tali dovrebbero indurre l’intera classe politica un più decoroso silenzio anziché continuare nell’insopportabile rimpallo delle responsabilità – bene o male si è deciso di provare l’ultima soluzione rimasta a disposizione. Incrociamo le dita e vediamo di approfittarne per sistemare l’intero trasporto aereo, vittima in questi anni di quel “federalismo aeroportuale” che ha portato alla moltiplicazione degli scali senza alcuna logica economica e sistemica.

Per esempio, smettiamo di dire che Malpensa è vittima di Fiumicino – peraltro fra i più fulgidi esempi di come non si dovrebbe gestire una società – o della scelta francese anziché tedesca di Cai. No, Malpensa è vittima di quelle amministrazioni pubbliche e di quelle forze che hanno reso carta straccia il decreto Burlando del 1998 (dieci anni!), che trasformava Linate in city airport per il Milano-Roma-Milano, e che inoltre non sono state capaci di creare le infrastrutture di collegamento degne di un hub internazionale quale lo scalo varesino ambiva ad essere.

Invece, nel 2008 Linate, con quasi 10 milioni di passeggeri, ha fatto concorrenza a Malpensa (sindaco Moratti, di chi è la colpa?) e i collegamenti tra lo scalo e Milano rimangono affidati ad un’autostrada intasata e ad un trenino (governatore Formigoni, di chi è la colpa?). Dunque, c’è moltissimo da fare per rimettere l’Italia a l’onor del mondo (che cambia), e non è chiudendo gli occhi di fronte alla realtà che si riuscirà in un’impresa tanto ardua.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.