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Antipolitica

Non sarà Grillo a salvarci

Il comico a cinque stelle non è una causa, ma una conseguenza

di Enrico Cisnetto - 28 aprile 2012

Oddio, Grillo. La politica italiana e i suoi osservatori hanno scoperto che esiste un guitto – ben pagato, come tale – che da anni cerca di trasformarsi in uomo politico attraverso un movimento, fintamente di base (tramite il web) ma in realtà assolutamente leaderistico, che si chiama Cinquestelle.

E pensano che basti appiccicargli addosso l’etichetta di “anti-politica” per scaricargli addosso la responsabilità di una impasse politica sempre più evidente e straordinariamente pericolosa in vista delle elezioni. No, le cose non stanno così.

Grillo e quelli come lui sono una conseguenza, non la causa o anche solo una delle cause di questa situazione. Come a suo tempo fu per Bossi e Di Pietro, le cui fortune politiche nacquero per colpa dell’ultima generazione della classe politica della Prima Repubblica, non viceversa. Ed è solo evitando di fare questa confusione che si può scansare l’errore commesso vent’anni fa, quando con Tangentopoli crebbe nel paese un’ondata di discredito che si portò via il vecchio sistema politico senza però riuscire a definirne uno nuovo che fosse davvero migliore.

Allora il ceto politico dominante parlò di “colpo di Stato”, alcuni alludendo al ruolo della sola magistratura e dei media, altri immaginando che potenze straniere e interessi economici “forti” fossero i burattinai di quell’operazione basata sul discredito. Io, pur deprecando il giustizialismo brutale con cui si defenestrano i partiti di governo, non ho mai creduto al complotto, e ho sempre pensato che la responsabilità di ciò che accadde tra il 1992 e il 1994 fosse di quella classe politica che non riuscendo ad affrontare la crisi di allora – do you remember il crollo della lira? – venne accusata di essersi assicurata privilegi e intascata il frutto delle malversazioni.

Basti pensare che l’astro nascente Bossi – pensa i casi della vita – arrivò a sostenere che il debito pubblico era la somma delle tangenti che la partitocrazia romana si era intascata. Oggi la storia si ripete, seppure a parti rovesciate per molti dei protagonisti. L’anti-politica di allora – nelle file della quale va annoverato anche Berlusconi, che con le sue televisioni contribuì più di chiunque altro a creare le condizioni perché la Prima Repubblica cadesse – è diventata ceto dirigente, e quando ha mostrato di non saper far fronte alla crisi finanziaria è stata travolta da scandali e oggetto di pubblico ludibrio.

Come ci dice la cronaca e l’umore degli italiani. Esattamente come vent’anni fa. Con l’aggravante, come sempre succede quando la storia si ripete, che questa volta non si salva nessuno. Il minimo storico, mai raggiunto prima, di fiducia nei partiti spalanca così le porte a chi si fa megafono dell’indignazione e della rabbia. Che poi si chiami Bossi, Di Pietro, Grillo, poco importa.

Talvolta si usa il linguaggio dell’identità territoriale, dietro la quale si cela la logica del ciascuno a casa sua se non addirittura del razzismo, in altre circostanze funziona l’autarchia economico-finanziaria (a destra contro l’euro, a sinistra contro la globalizzazione, ma con ampia intercambiabilità), in altre ancora prevalgono parole d’ordine forcaiole. Comune a tutti il linguaggio scurrile, la irresponsabilità nel formulare le accuse, la mancanza totale e assoluta di analisi e proposta. Ma non per questo i cittadini preferiscono gli accusati agli accusatori. Anche perché sanno che gli accusatori balleranno al massimo una stagione, poi saranno ridimensionati, se non buttati via e dimenticati.

Dunque, non si faccia confusione: il problema non è Grillo al 7% (occhio che i sondaggi veri dicono molto di più), ma i partiti tradizionali (ammesso che gli attuali meritino questa definizione) in caduta libera e persino il governo di transizione in accentuata e crescente difficoltà. Insomma, il grillismo – ma anche l’astensionismo – cresce quanto più declina il regime senza che sia chiaro con cosa sarà sostituito.

Fateci caso: l’argine ha tenuto un poco finché era accesa la speranza che il cosiddetto governo tecnico fosse in grado sia di spegnere l’incendio che rischia di farci bruciare vivi tutti, sia di creare le condizioni per costruire, direttamente o indirettamente che fosse, l’edificio della Terza Repubblica. Quando, tra il rialzo dello spread, l’incertezza su alcuni provvedimenti (articolo 18) e la mancanza di idee sull’uscita dalla recessione e l’avvio di un nuovo processo di crescita, si è diffusa l’idea che questo governo facesse fatica a dare risposte e si è cominciata a percepire una pesante incertezza sul futuro prossimo, ecco che quegli argini hanno ceduto e l’anti-politica ha preso il sopravvento. Il caso Lusi e quello della Lega, poi, hanno ingigantito la valanga.

Se così stanno le cose – e mi pare che un paio di ottimi articoli di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera confortino questa analisi – il tema non è come fermare Grillo, ma come fornire al Paese un progetto per la sua salvezza e ricostruzione – che certo non si ottengono con le invettive, i “no” a tutto e le idee strampalate dei protestatari – e una classe dirigente capace di metterlo in pratica.

Se alle elezioni l’offerta politica si ridurrà solo ai partiti esistenti (magari dopo abbondanti e fantasiose riverniciature) e ai vecchi e nuovi “anti”, l’Italia andrà a sbattere, facendosi male molto ma molto di più di quanto già non brucino le escoriazioni fin qui procurate. E non sarà Grillo il medico che ci salverà.

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