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L’Italia bocciata dall’ultimo rapporto del Fmi

Non possiamo più aspettare

Basta essere fanalino di coda dell’Europa. Affrontiamo la crisi con riforme strutturali

di Enrico Cisnetto - 05 ottobre 2009

Dove eravamo rimasti? Il Fondo Monetario e gli ultimi dati sull’export s’incaricano di sgombrare il campo dall’idea – tanto infondata quanto perniciosa – che la crisi mondiale abbia per magia cancellato i problemi strutturali di cui soffre l’economia italiana da oltre un decennio e che addirittura il nostro paese stia meglio di molti altri.

Basso potenziale di crescita, declinante produttività, redditi stagnanti, crescente gap di competitività: sono queste le definizioni con cui l’Fmi inchioda l’Italia ad un declino che risale a “ben prima di questa recessione”. E che senza “portare avanti le riforme” non potrà essere rimosso, anche se nel mondo fosse confermata una ripresa intorno al 3% complessivo il prossimo anno. Intanto perché l’Fmi considera “fragile” la ripresa che ci sarà in Europa (+0,5% l’Ue, +0,3% l’Eurozona, +0,2% l’Italia), da cui noi dipendiamo. Ma soprattutto perché i nostri mali vengono da lontano, non sono stati affrontati in questi anni e la crisi mondiale non può che averli aggravati.

Insomma, una sberla a chi minimizza – per ignoranza o per furbizia – e un sano richiamo a guardare in faccia la realtà e ad aprire finalmente una stagione di grandi cambiamenti strutturali. Ma per chi guardasse con sufficienza l’analisi degli economisti del Fondo – che nel passato, per la verità, hanno commesso più di un errore – può soccorrere l’Istat, che ha calcolato come in agosto le esportazioni verso i paesi extra Ue siano crollate del 15% rispetto a luglio e addirittura del 25,2% nei confronti dell’agosto 2008.

Peggio ancora le importazioni, scese del 30% su base annua. E se si considerano i primi otto mesi dell’anno, si vede come l’export sia calato del 20,2% e l’import del 28,7%. Si tratta di dati particolarmente allarmanti, sia perché riguardano l’import-export da e verso tutto il mondo tranne l’Europa, cioè quelle aree che molto più e molto meglio del Vecchio Continente hanno fronteggiato la crisi e imboccato la strada della ripresa.

Sia perché toccano un’attività, quella esportativa, che è l’unica in grado di ridare fiato al nostro manifatturiero. Sia, infine, perché rendono poco significativo l’unico elemento apparentemente positivo, e cioè il forte calo del deficit commerciale – che a fine anno potrebbe persino azzerarsi – per il semplice motivo che esso dipende dalla maggiore caduta delle importazioni rispetto alle esportazioni, il che tra l’altro significa meno materie prime da trasformare per le nostre imprese e meno prodotti da consumare.

Certo, non ha torto il viceministro Urso quando dice che la vera cartina di tornasole saranno i dati di settembre, ma questo non toglie che nel periodo gennaio-agosto la contrazione nell’attività di commercio mondiale ha fatto il paio con quella della produzione industriale, scesa anch’essa di un quarto. Ma la vera questione è un’altra: si tratta solo di cattiva congiuntura? L’Fmi ci ha appena detto di no: siamo di fronte a ben più gravi problemi strutturali del nostro sistema produttivo.

E se così è, allora bisogna considerare infondata la tesi – sposata dal Governo come da Confindustria – secondo la quale il grosso del capitalismo italiano negli anni scorsi, prima della crisi, si era messo al passo con i nuovi paradigmi della competizione globale. Cosa da cui ne consegue: a. che la crisi per noi sarà ancora lunga; b. che le riforme non possono più aspettare.

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