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Public Policy

Un nuovo soggetto politico per uscire dalla crisi

Non c'è più tempo da perdere

Per salvare l'Italia, è necessaria un'alleanza politica

di Enrico Cisnetto* - 24 maggio 2010

Salvare l’Italia. E contribuire a salvare l’Europa. Non sono davvero di poco conto gli obiettivi che dovrebbe darsi il nascente Partito della Nazione, che si spera possa finalmente trovare nella assise di Liberal a Todi il suo momento costituente. Un compito straordinario per una fase della vita repubblicana, a 150 dall’unità d’Italia, altrettanto drammaticamente straordinaria.

Per questo auspico, e con me tutta Società Aperta, che il convegno di Todi – uno dei pochi momenti di dibattito vero in un sistema politico che ha perso il gusto e cancellato i luoghi del confronto – sappia compiere almeno tre decisivi passi. Primo: assumere la piena consapevolezza dei gravissimi pericoli che incombono sul nostro Paese, sia per il riaprirsi di una fase sistemica di repressione giudiziaria di scandali in grado di ricreare le condizioni di vuoto politico che già si erano manifestate nel periodo 1992-1994, sia per la crisi finanziaria europea, che ha fatto dire al cancelliere tedesco Merkel che l’euro corre un drammatico rischio di sopravvivenza. Secondo: ragionare sulle scelte politiche che devono essere fatte per dotare il Paese degli strumenti necessari a prevenire una crisi di proporzioni inimmaginabili, ma nello stesso tempo per dargli la possibilità di costruire il cambiamento (la Terza Repubblica, per intenderci).

Terzo: convincersi che l’unica possibilità di fare tutto questo sta nella creazione – subito, perché si è già in ritardo – di un nuovo soggetto politico, capace di raccogliere intorno a sé tutte le forze sane della nostra società e di unirle sulla base di un programma di governo che sia un grande progetto per la salvezza e la modernizzazione del Paese. Proviamo anche qui a tenere quest’ordine, e partiamo dall’analisi.

Ho scritto sabato scorso su Liberal che l’Italia, stretta tra scandali nazionali e crisi internazionale, ha bisogno di un governo d’emergenza. Ripeto, anche a costo di annoiare, che siamo nel pieno di un’evidente contraddizione: più gira il ventilatore degli scandali, spandendo liquami a destra e a manca, più il governo s’indebolisce e, di conseguenza, più s’avvicina la fine di questa terribile stagione politica che abbiamo chiamato Seconda Repubblica. E questo è un bene. Ma più il governo mostra il fianco e più c’è il rischio che la speculazione internazionale punti le sue fiches sulla casella della crisi italiana, in modo non dissimile da come è successo in Grecia.

E questo non è un male, è una tragedia. Inoltre rischia di essere letale il cocktail che somma i due sentimenti prevalenti degli italiani in questo momento: la paura della crisi, che rischia di paralizzare l’economia proprio quando si accende qualche piccolo segnale di ripresa, e la sfiducia generalizzata nei confronti delle istituzioni, con gli inevitabili, conseguenti rigurgiti di anti-politica. A ciò si aggiunga l’avvitarsi di contrasti interni al partito di maggioranza relativa e nella stessa maggioranza di governo, lotte fratricide che s’intersecano con le inchieste giudiziarie.

A rifletterci, una situazione non dissimile da quella di inizio anni Novanta poi sfociata nella caduta della Prima Repubblica: crisi della lira e Tangentopoli. Con l’aggravante, oggi, che la crisi monetaria riguarda tutta l’Europa – e non è un “mal comune mezzo gaudio” – e che il fenomeno della corruzione, rispetto al 1992, sia quantitativamente e qualitativamente peggiorato perché si è passati dal finanziamento illecito della politica – con ampie attenuanti legate alla storia dell’Italia repubblicana terra di confine nella divisione Est–Ovest del mondo – al ben più grave arricchimento personale dei politici.

Per questo ci vuole un governo d’emergenza. E’ sempre più evidente, infatti, che l’attuale esecutivo non è in grado di affrontare la situazione. Basti pensare al fatto che dopo aver vinto le elezioni regionali – solo dal punto di vista percentuale, perché il Pdl ha perso due milioni e mezzo di voti e la stessa Lega è arretrata – si è sbandierata ai quattro venti l’intenzione di partire con le grandi riforme strutturali, con ciò confermando che nei primi due anni di legislatura ci si è limitati a gestire Alitalia, rifiuti di Napoli e terremoto in Abruzzo. Tuttavia dal voto amministrativo sono ormai passati due mesi, durante i quali la cronaca politica ci ha offerto soltanto il conflitto Fini-Berlusconi, le dimissioni di Scajola, la graticola su cui sono seduti Verdini e Matteoli, i boatos su chi altro potrebbe essere travolto dagli scandali, le richieste di spazio della Lega, e così via.

Ma come si costruisce, e soprattutto con chi, un governo di riconciliazione nazionale capace di dare risposta alle drammatiche emergenze del Paese? Intanto chiarendo bene che non si tratta di un esecutivo tecnico, ma, al contrario, di larga convergenza politica. Poi intestandosi l’iniziativa politica che lo deve promuovere. E l’unica forza in grado di assumerla, questa iniziativa – che non può e non deve essere “anti-berlusconiana”, salvo che sia il Cavaliere stesso a non capirne l’importanza e a restarne vittima per colpa sua – è l’Udc. Casini ha già coraggiosamente lanciato la proposta, il convegno di Todi mi pare si sia aperto all’insegna di questo progetto politico. Tuttavia il quadro è complicato.

Intanto, il fronte delle opposizioni altre rispetto all’Udc non offre alcuna sponda: il Pd è in coma, affetto da una malattia letale, la “dilaniosi” interna, mentre Di Pietro oscilla tra il solito giustizialismo – che finora è stato una mano santa per Berlusconi – e funamboliche convergenze con la Lega. E’ dunque evidente che a sinistra gli unici interlocutori sono i (pochi) riformisti singolarmente presi. Quando un Nicola Rossi dichiara che intende votare a favore della manovra correttiva perché il suo più importante contenuto è il valore simbolico che essa rappresenta agli occhi dei mercati finanziari, e non vuole far mancare il suo contributo in un momento così delicato, ecco l’esempio giusto di questa necessità di cogliere fior da fiore.

Ma, è inutile girarci intorno, il tema vero è quello del centro-destra. La mia sensazione è che le strade di Berlusconi e della Lega siano destinate a dividersi, e non in tempi biblici. Naturalmente saranno i due fronti aperti, quello della crisi europea e quello degli scandali, a dettare i tempi e le modalità della separazione, ma l’impressione è che la partita si sia già aperta. Questo naturalmente pone un problema non di piccolo conto: nella maggioranza l’interlocutore per il governo d’emergenza deve essere Berlusconi o Bossi? Dopo i reiterati niet del capo della Lega all’ingresso dell’Udc nel governo – tema che non si è mai posto e che spero nessuno voglia porre in questi termini – la risposta al dilemma sembrerebbe scontata: l’interlocutore è il Cavaliere. Ma ci sono due controindicazioni di non piccolo conto. Primo: oggi Berlusconi è un interlocutore debole, mentre Bossi, specie nell’asse con Tremonti, è forte.

Secondo: Berlusconi conosce solo lo scambio “merce”, non quello politico, e l’Udc non può permettersi – dopo che alle regionali le è già stato appiccicato addosso il marchio d’infamia della politica dei due forni – di ritrovarsi a negoziare qualche ministero, tanto più dopo che Fini si è smarcato così clamorosamente dal premier. Allo stesso modo, bisogna essere coscienti di due altre due controindicazioni “positive” nel valutare la posizione della Lega. La prima è che oggi dire Lega significa dire, prima di tutto e soprattutto, Tremonti.

E il ministro dell’Economia è, di fatto, il vero capo del governo ormai da tempo; è il vero artefice della difesa dei conti pubblici dall’assalto alla diligenza – seppure non altrettanto bravo come nell’uso del freno sia stato nell’azionare l’acceleratore della crescita – ed è l’unico candidato premier possibile alternativo a Berlusconi in questa fase. La seconda è che la Lega avrebbe un ruolo decisivo se – Dio non voglia – la crisi dell’eurosistema dovesse accentuarsi.

Perché dobbiamo convincerci di una cosa, che mi pare l’amico Giorgio La Malfa abbia spiegato con grande chiarezza e lucidità: dopo la crisi finanziaria mondiale e quella europea che stiamo attraversando, sulla schedina dell’euro è escluso il pareggio, cioè il ripristino della situazione ante-crisi. O si vince o si perde. Vincere significa fare una “Maastricht due” con cui costruire gli Stati Uniti d’Europa. Perdere significa lo sfascio della moneta unica: o per la disgregazione del sistema monetario, a seguito di un attacco speculativo in grande stile ai due paesi che più si prestano a procurare un danno sistemico all’euro, Spagna e Italia; o per il ritiro dei tedeschi che fanno rinascere il marco; o, infine, per una divisione dell’eurozona in due soggetti a velocità diverse e con monete diverse.

Tre circostanze tutte cariche di pesanti incognite per noi, ma la terza in più alimenterebbe anche le già forti spinte separatiste che serpeggiano in Italia, visto che il Nord avrebbe i numeri per stare in serie A e al Sud toccherebbe stare in B, salvo verificare – e si può immaginare quanto sarebbe “sanguinoso” – come dividere tra le “due Italie” il debito pubblico. E l’unico baluardo ad una catastrofica circostanza come questa sarebbe rappresentato da una scelta “nazionale” della Lega. La battuta di Bossi sull’euro – “ce lo teniamo” – può far sperare che prevalga la saggezza. In tutti i casi è assolutamente necessario fare tutto il possibile perché questo accada.

E se Casini domani, mostrandosi più forte degli attacchi di Bossi, facesse un passo in questa direzione, potrebbe dire a se stesso e al Paese di non aver lasciato niente d’intentato. Sia chiaro, questo ragionamento a voce alta lo fa uno che, personalmente e come presidente di Società Aperta, da sempre denuncia i guasti del localismo esasperato e straccione fin qui praticato e paventa i pericoli insiti nel tasso di federalismo che ulteriormente si vuole incrementare, si chiami demaniale o fiscale. Ma ci sono circostanze in cui bisogna saper valutare con freddezza tutte le variabili in gioco, e questa è certamente la più grave che il paese abbia conosciuto dal dopoguerra in poi proprio perché rischia di mettere in forse l’unità nazionale, e per di più nel momento in cui è in pericolo l’euro e con esso l’intera costruzione europea. Ultimo punto, la nascita del Partito della Nazione.

Abbiamo fin troppo esaminato il tema – ultima la tappa gli “stati generali” di Chianciano – per dover ripetere le ragioni che militano a favore di questo passaggio. Anzi, le emergenze di cui abbiamo parlato fin qui fanno persino passare in secondo piano le motivazioni legate alla necessità di costituire una forza d’interdizione che faccia saltare il fallimentare bipolarismo all’italiana che ha caratterizzato la stagione della Seconda Repubblica, che vogliamo al più presto chiudere, e nello stesso tempo che abbia l’autorevolezza per aprire la fase nuova della Terza Repubblica. Ormai è chiaro: per svolgere il ruolo di acceleratore del processo di superamento della Seconda Repubblica e di aggregatore di forze che siano protagoniste di un avvio virtuoso della Terza, non basta auspicare l’allargamento dell’attuale Udc, ma occorre puntare senza indugio alla creazione di un nuovo soggetto politico, che non basta sia un nuovo partito, ma bisogna che sia anche e soprattutto un “partito nuovo”.

Ho detto più volte, e lo ripeto, che esso deve soprattutto essere il punto d’incontro tra cattolici e laici non integralisti, e che la forma di un “partito holding” mia sembra la più efficace. L’idea è semplice: creare un soggetto in cui tutte le forze esistenti – partiti, associazioni, fondazioni, movimenti – interessate al “partito della Nazione”, possano federarsi senza per questo perdere la loro identità e rinunciare alla loro autonomia. Questo consentirebbe a laici e cattolici, e alle loro diverse anime, di incontrarsi intorno ad un progetto rifondativo del Paese, della sua democrazia, delle sue regole basilari, ma nello stesso di mantenere intatta la loro capacità di iniziativa e battaglia politica sui temi più propri alle rispettive radici politico-culturali.

Per capirci, sulle tematiche etiche, che io ritengo debbano essere di prerogativa del Parlamento e non far parte di un programma di governo, liberi tutti, mentre sul programma di governo – un grande “progetto Italia” che guardi all’esperienza storica dell’asse De Gasperi-La Malfa – piena convergenza e assoluta lealtà. Al primo lavoro ci penseranno i soggetti esistenti (o quelli che vorranno costituirsi intorno a delle specificità), al secondo dovrà badare il “partito holding”, che poi sarà quello che dovrà presentarsi alle elezioni e riscuotere il consenso di quei tanti che saranno politicamente orfani.

E il primo lavoro da fare, oggi, è preparare la base programmatica – basata sulle grandi riforme strutturali: economiche, dello stato sociale, istituzionali – da dare al governo d’emergenza. Per questo a Todi, io personalmente e Società Aperta tutta diciamo che siamo pronti, se davvero si ha la consapevolezza che non c’è più un minuto da perdere.

*Presidente Società Aperta

Pubblicato da Liberal

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