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Dobbiamo cambiare mestiere

Niente illusioni, il declino c'è

Bisogna favorire i processi di trasformazione del nostro sistema economico

di Enrico Cisnetto - 09 dicembre 2005

Non so se abbia a che fare con la programmite (eccesso di programmi), malattia senile della sterilità politica (da bipolarismo irrealizzato), ma l’Italia sta rischiando l’ennesima ubriacatura di illusioni. In giro ce ne sono almeno tre da cui guardarsi accuratamente.

La prima è quella che potremmo chiamare della “ripresa in atto”. Sarà stato il fastidio per la saccenteria con cui l’Economist ha condito analisi giuste, sarà perchè un po’ tutti – l’ultimo è stato Fassino alla convention programmatica (appunto) Ds – continuano a parlare del declino come pericolo potenziale e non come realtà dei fatti, sta di fatto che va di moda dire che “abbiamo svoltato”. E non solo in termini congiunturali: il Censis ha scelto per illustare lo stato (fattuale e d’animo) del Paese frasi simboliche come “scintille di ripresa”, “nel sistema socioeconomico circola una vibrazione reattiva, quasi un insolito vigore”, “nella società circolano più tensioni a vivere che l’afflosciamento su un triste destino”. Stimo De Rita, ma francamente ho l’impressione che l’Italia sia sempre con “le pile scariche” (Censis 2002), anzi più scariche di prima per gli ulteriori tre anni buttati via, e soprattutto che lui abbia una voglia matta di riscattare quel suo “piccolo è bello” che rappresenta un vero e proprio “buco nero” nella nostra coscienza collettiva, tanto che nell’analisi di quest’anno gli è scappato di definire “tecnocratiche” le critiche al “nanismo” delle imprese.

Scrive Peppino Turani – che è uno dei pochi a parlare di declino non per spirito partigiano o, peggio, per inclinazione ideologica, ma con la concretezza dei numeri che gli è propria – che De Rita in fondo non ha torto, ci sono imprese che guadagnano e crescono, qua e là c’è voglia di andare avanti, di recuperare. Ma, dopo averci ricordato i mille dati che confermano il declino-collasso, Turani descrive l’Italia come un Titanic sulla cui tolda c’è ancora qualcuno che ha voglia di divertirsi, e non è proprio un’immagine che possa confortare il teorema del Censis. Ora, se c’è un deficit che questo benedetto Paese denuncia più di ogni altrio è la consapevolezza, e De Rita è troppo bravo e intelligente per non sapere che le sue parole d’ordine “buoniste” sono altrettante dosi di narcotico date a chi si rifiuta pervicacemente di guardare in faccia la realtà. Così, caro De Rita, non si aiuta il Paese a “ritrovare se stesso”, ma lo si condanna a perpetuare le proprie minorità. E la stessa preghiera la rivolgo a Montezemolo: capisco che il presidente della Confindustria per “mestiere” debba sempre guardare alla parte piena del bicchiere, anche quando, come nel nostro caso, sia scarsa, ma attenzione a non distribuire illusioni, perchè è facile che diventino alibi branditi da chi (imprenditori compresi) non ha nessuna intenzione di cambiare.

E a proposito di ambienti confindustriali, è da essi che arriva la seconda delle “grandi illusioni” di cui voglio denunciare la pericolosità. Si tratta del “lavoriamo di più se vogliamo recuperare competitività”. Ha cominciato il mio amico Bombassei con il sabato, cui gli ha fatto eco Guidi con “meno ferie per tutti”. Intendiamoci bene, le classifiche internazionali ci dicono che potremmo lavorare molto di più, che la produttività tra il 2000 e il 2002 è scesa del 2,8% mentre in Europa è cresciuta dell’8%, che il costo del lavoro per unità di prodotto tra il 2000 e il 2004 in Germania e Francia è sceso tra il 2% e l’1,5%, mentre in Italia è salito del 15,8%.

E’ dunque evidente che salire a 44 ore settimanali e ridurre le ferie ci consetirebbe di riequilibrare questi valori. Ma dobbiamo dirci con nettezza che non è questo il punto. Il rapporto tra il nostro costo del lavoro e quello dei paesi dell’Est è di 1 a 20 (non parliamo di quello con l’Asia): è chiaro che si tratta di gap irrecuperabili, e dato che il nostro capitalismo per la gran parte produce manifattura e offre servizi che sono ormai di pertinenza dei paesi emergenti, il nostro primo problema è “cambiare mestiere”, non fare a minor costo (sempre troppo rispetto a Est e Asia) quello che abbiamo sempre fatto. Ridurre i costi riguarda solo una parte, purtroppo minoritaria, delle imprese italiche, e illudere tutte le altre che sono salvabili se solo i dipendenti lavorano di più (e magari guadagnano di meno) significa ritardare gli inevitabili (e dolorosi) processi di trasformazione del nostro sistema economico. Lavorare di più in imprese che fanno altro, questo sì che sarebbe lo slogan più adatto per combattere il declino.

Volevo parlare anche della “illusione liberalizzazioni”, ma ho esaurito lo spazio: rimando il ragionamento alla prossima settimana.

Pubblicato su Il Foglio del 9 dicembre 2005

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